HomeSicurezzaMicotossine, intervista a Carlo Brera, esperto ISS

Micotossine, intervista a Carlo Brera, esperto ISS

Le micotossine, il male invisibile. I  temuti contaminanti naturali, altamente tossici per l’uomo, rappresentano un’allerta permanente. Come prevenirne la formazione e gestire i relativi rischi per la sicurezza alimentare? Dal 10 al 12 giugno 2019  Roma ospita il convegno internazionale sul tema (in allegato la locandina). Un  appuntamento che da vent’anni riunisce i massimi esperti per condividere aggiornamenti sullo  stato dell’arte, evoluzione scientifica e normativa. A seguire l’intervista a  Carlo Brera, uno dei massimi esperti di micotossine a livello internazionale, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità nonché organizzatore del congresso.

Dottor Brera, esiste un rischio concreto per la popolazione derivante dal consumo di alimenti comuni, quali pasta, pane, biscotti?

Dalle evidenze scientifiche finora acquisite la popolazione in generale è da considerare non particolarmente a rischio, tranne che per i bambini di età post-infantile (3-10 anni) e in parte gli adolescenti, in base al loro sfavorevole peso corporeo e al consumo di alimenti non dedicati a questa fascia.Mangiano,  infatti,  alimenti pensati e idonei per il consumo da parte degli adulti, non  sussistendo  una differenziazione come avviene per il baby food (destinato a lattanti e bambini fino ai 3 anni), soggetto a limiti inferiori per la presenza di contaminanti.

Quali sono i fattori responsabili della formazione di micotossine?

I fattori principali a cui riferirsi come fonte di rischio sono principalmente quelli legati alle condizioni ambientali che causano stress sia alla pianta che alla stessa muffa. In particolare, lo stress termico, nutrizionale ed idrico rappresentano senz’altro condizioni favorevoli per lo sviluppo in campo di colonie fungine con probabile conseguente produzione di micotossine.   

Le micotossine sono ancora una grave minaccia per le colture?

Rispetto a 20 anni fa, gli agricoltori – così come tutti gli operatori del sistema alimentare mangimistico – hanno migliorato l’attenzione al problema, ma ancora non si è raggiunto un livello di prevenzione soddisfacente. Il rischio rimane elevato, in certe condizioni climatiche. Il 2014 non è andato bene, ma l’ultima condizione di rischio elevato risale al 2012 e si è ripetuto come nel 2003. Evidentemente la lezione non è stata imparata. Anche quest’anno ci sono stati segnali di un forte attacco delle muffe in campo.

16 anni fa  l’annata si caratterizzò con 6 mesi di siccità, con assenza di piogge da maggio a ottobre. Le condizioni ideali per una forte crescita di aflatossina B1. Allora gli agricoltori non furono in grado di intervenire, poiché l’irrigazione non è mai sufficiente a compensare un tale livello di aridità. La granella essiccò in campo prematuramente, venne quindi raccolta anzitempo con un’umidità al di sotto del 22%, favorendo la formazione di muffa che condusse a livelli di aflatossina spaventosi. Tutti i raccolti contaminati vennero segregati in silos. L’industria del biogas decollò proprio in quella occasione, allorché smaltì il 30-40% di quei raccolti contaminati.

In caso di contaminazione, vi sono trattamenti efficaci per eliminare le micotossine dagli alimenti? Tostatura ed essiccazione, ad esempio?

Le micotossine  non possono venire eliminate. Sono contaminanti naturali prodotti da muffe o funghi a causa di condizioni climatiche favorevoli. Sono ubiquitarie, crescono a tutte le latitudini, sono inoltre fortemente termostabili. La prevenzione è l’unico modo per contrastarle, ma proprio qui si staglia l’ostacolo più grande.

Quali misure di prevenzione si possono adottare?

Sulle misure da adottare  sul campo per combattere la formazione di micotossine nel mais e nel grano vi sono buone pratiche codificate in atti ufficiali. Come la Raccomandazione del 1996 della Commissione europea, la Raccomandazione del Codex Alimentarius, le linee guida del ministero delle Politiche agricole (redatte dal professor Amedeo Reyneri, che sarà presente al congresso).

Cosa prevedono le buone prassi agricole?

Le buone prassi  raccomandano l’adozione di un approccio olistico caratterizzato da molte componenti quali ad esempio la precessione colturale (rotazione delle colture, ndr), che permette di contenere la propagazione di micotossine. Questa è infatti più probabile quando si coltivano di seguito specie appetibili ai funghi che originano queste tossine, come ad esempio mais e subito dopo sorgo. Si deve poi ricorrere alla lotta biologica, anche utilizzando insetti antagonisti. E ricorrere, se del caso, alla concia del seme.

La  semina  deve avvenire su terreno arato, non sodo. Si raccomandano inoltre  il controllo di erbacce e ‘pests’,  l’impiego di fungicidi, la corretta irrigazione. E il controllo della meccanizzazione del raccolto, per evitare che la granella venga danneggiata da strumenti meccanici, in quanto ogni ferita alla granella o alla cariosside diventa nutrimento per la crescita delle muffe durante lo stoccaggio. Altre misure di prevenzione sono riferite alla fase finale, vale a dire a una immediata essiccazione del raccolto e l’accurata gestione dei silos.

Vi sono anche misure di contrasto innovative?

La soluzione migliore  sono le piante resistenti all’attacco fungino e alla produzione di micotossine. Varietà ottenute per linee isogeniche, da mais o frumento (non Ogm, ndr), create da università italiane, dal CREA, dall’Istituto di cerealicoltura di Bergamo. Nonostante esistano numerosi studi e varietà di semi registrate come resistenti ad attacco fungino, tali soluzioni non vengono ancora adottate in modo sistematico. Il problema è che l’agricoltore, al tempo della semina, non sa quali saranno le condizioni climatiche nei mesi successivi. E non è disposto a pagare di più una varietà resistente in assenza di garanzie sul ritorno del maggior investimento. 

Una buona pratica  che sta prendendo piede anche il Italia da circa tre anni è il biocontrollo, messo a punto negli Stati Uniti negli anni ‘80. Si tratta di irrorare il campo coltivato con ceppi fungini identici a quelli che producono le micotossine ma caratterizzati dall’essere atossici. Giocando sulla quantità, si induce la specie fungina atossica a prevalere sull’altra, ottenendo una riduzione dell’accrescimento di muffa tossigena congeniale alla produzione di aflatossina B1, che è altamente tossica.

Altra possibile soluzione, adottata in diversi Paesi al di fuori del nostro, è l’utilizzo di varietà di mais geneticamente modificato (Ogm), che inibiscono la formazione di alcune micotossine (fumonisine). La Spagna le coltiva, gli agricoltori italiani invece non possono. Sia per il divieto di semina che vige in Italia, sia per la frammentazione della nostra agricoltura in piccolo lotti che renderebbe impossibile evitare la contaminazione tra le colture Ogm e quelle convenzionali. Un bando alla semina ma non al consumo. Come è noto infatti, il nostro paese tuttora importa mangimi Ogm  per alimentare gli allevamenti da cui originano le materie prime di eccellenze quali Parmigiano reggiano o prosciutto di Parma. (Un paradosso già su questo sito evidenziato, ndr).

Con tante misure di prevenzione a disposizione, perché le micotossine in campo restano una minaccia costante?

Ci vuole poco  a descrivere le buone pratiche, ma molto ad attuarle. E l’agricoltore deve prima di tutto assicurarsi un reddito. L’ho sempre detto anche in ambito internazionale, servirebbero politiche agricole mirate al sostegno degli agricoltori, altrimenti non c’è prevenzione che tenga, perché nessuno riconosce all’agricoltore i maggiori costi che ne derivano.

Adottare pratiche  agronomiche che consentano di ottenere un raccolto senza micotossine costa di più, ha un plus, ma il raccolto viene pagato sempre lo stesso prezzo. Se invece è contaminato viene pagato ancora meno. In questa situazione è logico che l’agricoltore cerchi di fare il massimo per proteggere la sua produzione, ma senza superare un certo livello, altrimenti non avrebbe più ritorno economico.

Le stesse considerazioni valgono anche per l’agricoltura biologica?

Gli alimenti di agricoltura biologica  dovrebbero essere più tutelati, rispetto al rischio di contaminazione da micotossine, perché le  citate  buone prassi agronomiche sono previste di ‘default’.

La frequenza di contaminazione  è di gran lunga più elevata nel convenzionale. Ma una eventuale contaminazione su un campo biologico può raggiungere livelli molto più alti rispetto al convenzionale, perché non vengono usati pesticidi, erbicidi e insetticidi.

In una recente indagine sulle segnalazioni al RASFF di partite alimentari contaminate da micotossine, abbiamo notato che i Paesi di provenienza del rischio sono sempre gli stessi. E tra questi primeggiano gli Stati Uniti, patria del ‘biocontrollo’. Come mai?

In Europa  abbiamo una normativa molto rigorosa e restrittiva, basata su principio di precauzione, mentre gli Stati Uniti si basano sulla valutazione del rischio e privilegiano la commerciabilità del prodotto.

Nonostante la ricerca  avanzata e l’impiego di colture Ogm resistenti alle micotossine, inoltre, gli Stati Uniti sono caratterizzati da condizioni climatiche che non permettono di garantire il rispetto dei limiti vigenti in Europa. Questo però non ci deve spaventare, perché godiamo di un ottimo sistema di controllo alle frontiere europee.

Come sono regolati i controlli alle frontiere dell’Unione europea?

La Commissione europea  ha emanato due regolamenti specifici per modulare i controlli in considerazione dei fattori di rischio. Entrambi i regolamenti – reg. CE 669/09 sui contaminanti patogeni e reg. UE 884/14 sulle aflatossine – recano una tabella con nazione, matrice, frequenza dei controlli in base al rischio e parametri da controllare (salmonella, aflatossine, ocratossina ecc). Vengono aggiornati ogni 4 mesi e le percentuali di partite da controllare possono cambiare.

15 anni fa,  per esempio, emersero problemi sui pistacchi iraniani, contaminati da aflatossina B1. La Commissione europea, allora DG SANCO, decise che il 100% delle partite in entrata dovesse venire assoggettato a controlli. In seguito fu inviata una delegazione di ispettori in Iran per verificare l’origine del problema. In pochi anni la situazione andò migliorando e i controlli scesero prima al 50%, poi al 20%. Proprio grazie ai rimedi condivisi con gli esperti della missione europea e la loro effettiva adozione da parte dei produttori locali.

Attualmente, il reg. UE 884/14 prevede, in alcuni casi, il controllo di una partita su 2, quando l’origine è a rischio aflatossine. Ciò che non viene vagliato alle frontiere europee è comunque soggetto ai controlli sui territori degli Stati membri.

Perché nel RASFF l’Italia compare poco tra i segnalatori di partite contaminate da micotossine?

Storicamente l’Italia è sempre stata ai primi posti per le segnalazioni di allerta in quanto abbiamo una rete  di controlli unica in Europa per organizzazione ed efficienza. Per questo è altamente probabile che gli importatori non facciano sbarcare in Italia le partite alimentari contaminate da micotossine. E di conseguenza, non trovandone, l’Italia non compare spesso nel RASFF per questo tipo di allerta, pur essendo in generale tra i Paesi europei che inviano il maggior numero di segnalazioni.

Nel territorio nazionale, quindi prioritariamente sulle produzioni italiane, qual è il livello dei controlli e del rischio micotossine?

Nel 2016  ho chiesto al ministero della Salute di organizzare un piano nazionale di controllo del rischio micotossine sugli alimenti. Insieme abbiamo redatto il piano, che si è protratto fino al 2018 ed è tuttora in essere. Tutte le regioni hanno contribuito. Ora io – valutatore del rischio – ho a disposizione una banca dati bene organizzata per quantità e qualità delle informazioni.

6 mila dati, ordinati secondo lo standard richiesto da EFSA, mi consentono di fare una indagine sul rischio di esposizione alle micotossine in Italia. Un volume che ci rende anche competitivi a livello europeo. Quando la Commissione chiede agli Stati membri i dati sul livello di rischio interno, è importare fornirne una buona quantità, per avere maggior peso nel processo decisionale.
Il rischio di esposizione della popolazione italiana alle micotossine presenta ancora alcuni problemi. Ma non emergono grandi criticità, sulla base delle analisi che porterò al congresso.

Dottor Brera, ci anticipi qualcosa del congresso sulle micotossine che ha organizzato a Roma.

La prima giornata, il 10 giugno, è interamente dedicata alle metodologie analitiche sulle micotossine e tossine vegetali. Quest’anno si svolge in una sede prestigiosa, il Nobile collegio chimico farmaceutico, via in Miranda 10, dentro il Foro romano. Saremo all’interno di una chiesa consacrata. Un portone verde sul retro si apre davanti all’unico tempio ancora intatto. Le altre due giornate – rispettivamente dedicate alla gestione del rischio e alla valutazione del rischio – si svolgono invece, come tradizione, all’Istituto superiore di sanità.

Tra i numerosi relatori di rilievo internazionale, spicca il dottor Frans Verstraete della DG SANTE della Commissione europea, che presenterà le ultimissime notizie in materia. Sono poi presenti i rappresentanti di tutte le maggiori organizzazioni attive nel settore delle micotossine. Il CEN, Comitato Europeo di Normalizzazione, ente di riferimento per l’approvvigionamento dei metodi di riferimento per le analisi sulle micotossine. Il ministero della Salute, l’EFSA, il CREA, vil CNR di Bari e varie università (Torino, Piacenza), l’Associazione tecnologi molitura, Coldiretti e altri.

ALLEGATO Programma_VI Congresso Nazionale Micotossine

Marta Strinati
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Giornalista professionista dal gennaio 1995, ha lavorato per quotidiani (Il Messaggero, Paese Sera, La Stampa) e periodici (NumeroUno, Il Salvagente). Autrice di inchieste giornalistiche sul food, ha pubblicato il volume "Leggere le etichette per sapere cosa mangiamo".

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