ll WTO (World Trade Organization) ha dato ieri il via libera ai dazi USA sulle importazioni di merci europee, fino a 7,5 miliardi di US$. A titolo di ritorsione sui finanziamenti concessi dall’UE al Consorzio Airbus. Così al danno – di avere contribuito con le nostre tasse ai finanziamenti illeciti del colosso aeronautico franco-tedesco (con quote minori di Inghilterra e Spagna) – si aggiunge la beffa. Poiché l’Italia sarà tra i primi a pagare il conto degli illeciti europei. È ora di guardare a nuovi orizzonti.
Dazi USA, il movente
Nel 2004 gli USA hanno denunciato al WTO i finanziamenti erogati dalla Commissione europea al gruppo Airbus. Deducendone l’illegittimità, in quanto riconducibili ad aiuti di Stato non ammessi dall’accordo istitutivo del WTO (o OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio). Poiché in grado di alterare le condizioni della concorrenza internazionale nel settore aeronautico. In quello stesso anno gli Stati Uniti hanno a loro volta erogato al gruppo Boeing finanziamenti pubblici, che sono stati contestati dall’Unione Europea in sede WTO.
Il 2.10.19 il WTO ha riconosciuto la fondatezza delle contestazioni USA agli aiuti europei a favore di Airbus. Dichiarando legittima l’applicazione di dazi supplementari, da parte di Washington, sulle importazioni di merci dall’Europa. Quale misura ritorsiva atta a compensare i torti subiti, entro il limite di 7,5 miliardi di US$ (pari a € 6,8 mld). L’OMC è stata tra l’altro indulgente nei confronti dell’Europa, a fronte di una richiesta formale di compensazione per 11,2 mld di US$. In attesa, entro il primo semestre 2020, della pronuncia sulla controversia attivata dall’UE nei confronti degli Stati Uniti per gli aiuti concessi a Boeing.
Dazi USA, quanti e quali
Come è uso nei contenziosi WTO, la pronuncia di riconoscimento del diritto ad applicare dazi ritorsivi definisce il quantum, cioè l’entità complessiva della compensazione e la quota massima degli incrementi daziari (in questo caso, fino al raddoppio). Senza tuttavia specificare il quomodo, vale a dire le categorie di merci investite dai dazi supplementari, e i tempi entro cui raggiungere la soglia di compensazione decisa.
L’Ufficio dello US Trade Representative ha perciò sottolineato la possibilità, per Washington, ‘di aumentare le tariffe in qualsiasi momento’. Fino al 100%, a decorrere dal 18.10.19. E di modificare nel tempo la lista dei ‘prodotti interessati’. Secondo lo schema ‘Carousel’, che a discrezione del vincitore può abbattersi sulle filiere di questo o quel Paese. Ivi comprese quelle, già annunciate, dei settori lattiero-caseario e vitivinicolo in Italia.
Una rassicurazione transitoria è rivolta agli ‘alleati’ a cui frattanto si richiede di aumentare i contributi alle spese militari NATO. Nonché di seguire gli ordini di isolare nostri storici partner – come Russia, Iran e Siria – oltre a Cina e Venezuela. Senza dimenticare le pressioni per concludere il TTIP, coi suoi non trascurabili riflessi. E dunque, ‘in questo momento’ i dazi supplementari sulle merci degli ‘alleati’ saranno più contenuti.
La spada di Damocle sui formaggi italiani
I nuovi dazi si applicheranno presumibilmente a whisky scozzesi, vini francesi, formaggi italiani, olive da Spagna, Francia e Germania. Oltre a lana e abbigliamento inglese, e un ‘dazio del 10%’ sui ‘grandi velivoli civili’. Non rimane che attendere l’elenco provvisorio dei prodotti su cui cadrà questa spada di Damocle, per prevederne l’impatto sul settore agroalimentare italiano. Sebbene Mike Pompeo, ora in visita in Italia, abbia riferito ai formaggi e vini italiani. Forse anche per costringerci a interrompere le collaborazioni in essere con la Cina sul 5G.
Il Pecorino Romano prodotto in Sardegna è il prodotto più a rischio. Considerato che gli USA rappresentano oltre il 60% delle esportazioni complessive. E neppure l’adempimento postumo della promessa elettorale dell’ex ministro dell’Interno – latte ovino sardo a 1 euro al litro – potrebbe evitare la disintegrazione della filiera. (1)
Le filiere di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Provolone DOP a loro volta rischiano di subire il crollo delle esportazioni sul loro primo destino di export. Col duplice danno di ridurre le vendite e perdere quote di mercato conquistate a fatica nel corso dei decenni. A vantaggio delle contraffazioni Made in USA e Made in Canada, che lo scellerato accordo CETA – tanto voluto da Matteo Renzi e la sua Teresa Bellanova – ha già sdoganato, ammettendo l’evocazione dei nomi delle nostre DOP (casearie e non). (2)
Nuovi orizzonti
Pantalone paga, per ben due volte. Prima accettando la devoluzione dei propri contributi pubblici all’Europa, a favore della Corporation di francesi e tedeschi, spagnoli e inglesi. Poi pagando il conto di aiuti illeciti da cui non ha tratto alcun vantaggio, salvo rischiare di venire colpita in un suo settore strategico. (3) Chi continua a blaterare di un’Europa che ‘ci ha dato settant’anni di pace’ dovrà rendere conto ai pastori sardi e ragusani, agli allevatori padani. Oltre alle industrie di alimenti e macchinari, e a chi affida il proprio sostentamento ai relativi indotti. Quali compensazioni?
Una riflessione più profonda merita il ‘sogno americano’, che molti si ostinano a inseguire. Trascurando i riflessi negativi della dipendenza da un padrone prepotente che pretende l’esclusiva, allontanandoci da mercati che presentano opportunità ben maggiori in una prospettiva di breve, medio e lungo termine. Come la Russia e la Cina, oltre a India e Brasile.
I BRICs sono scomparsi solo dai giornali economici italiani. Ove gli N11, the Next Eleven, pure compaiono di rado. Trascurando in particolare 4 di questi – Indonesia, Corea del Sud, Messico e Turchia – che già da un quinquennio il brillante analista Jim O’Neill definisce ‘i mercati della crescita’. (4) 15 Paesi ove si attende, entro il 2030, la formazione di una ‘classe media globale’ che ben potrà apprezzare le merci Made in Italy. Senza neppure pretendere di installare basi militari con ordigni nucleari a casa nostra, né di bombardare i nostri vicini con l’avallo di servili piddioti.
La domanda interna, a sua volta, sfugge alle dovute attenzioni di alcuni protagonisti della filiera italiana. I quali paiono ‘esterofili incalliti’, anche nelle dichiarazioni pubbliche dei loro rappresentanti, da Federalimentare a Coldiretti. È forse un retaggio culturale del sogno americano, dedicare più risorse alle fiere di Colonia e New York che al presidio di un territorio sempre più arido. Un po’ come andare a cercare l’acqua su Marte anziché avere cura dei propri ecosistemi socio-ambientali. Perdendo di vista il bisogno essenziale di costruire filiere corte, eque e sostenibili. Creare Valore e Lavoro – VALORO, nella crasi di Vito Gulli – per rafforzare alle radici l’economia del Paese.
#Égalité!
Dario Dongo e Giuseppe Masala
Note
(1) Varrebbe anzi la pena di chiedere alla Regione Sardegna cosa abbiano fatto le sue centinaia di esperti per diversificare il prodotto e i mercati, oltre a rilanciare la filiera. Si veda il precedente articolo https://www.greatitalianfoodtrade.it/consum-attori/c-è-latte-e-latte-le-ragioni-degli-allevatori-in-sardegna
(2) Vale anche la pena di ricordare come l’impiego della denominazione Parmesan sia stato espressamente legittimato dalla Commissione di Jean-Claude Juncker, nel successivo trattato UE-Giappone (JEFTA). Si veda https://www.greatitalianfoodtrade.it/idee/jefta-lettera-aperta-ai-consorzi-delle-nostre-dop-e-igp
(3) Il settore agroalimentare, si ricorda, esprime il 13% del PIL italiano e ci colloca al primo posto in Europa per valore aggiunto in agricoltura, al secondo per la produzione agricola e al terzo per quella industriale. Si veda https://www.greatitalianfoodtrade.it/idee/al-nuovo-governo-alcune-proposte-per-il-settore-agroalimentare
(4) Jim O’Neill, su ‘the Growth Map’ (2014), sottolinea le prospettive rosee di BRICs e N 11, legate a crescita demografica e incremento di produttività che si abbina ad altri fattori, come l’accesso all’istruzione, la tecnologia e i tassi di inflazione stabili. V. recensione del prezioso libro su https://www.greatitalianfoodtrade.it/libri/letture/il-libro-the-growth-map