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Filiera corta, concetti e valori

Filiera corta’, ‘Km0’. Il tricolore è già il logo più affermato, su oltre 10 mila delle 72.100 etichette a scaffale censite nel rapporto GS1-Italy Immagino 2018. E il ‘100% italiano’ è l’astro nascente, +7,8% le vendite rispetto al 2017. Si va allora oltre, per esprimere il valore di filiere integrate su aree circoscritte. Attenzione però alle parole e al loro significato.

La ‘filiera corta’ nel diritto UE

Il concetto di ‘filiera corta’ è dapprima comparso nella Politica Agricola Comune (PAC), con l’idea di sostenere e promuovere lo sviluppo rurale sostenibile. Salvo poi escludere l’agricoltura contadina e familiare dall’accesso ai contributi che sono di fatto riservati alle coltivazioni su macro-scala, senza badare al loro effettivo impatto sull’ecosistema.

Il legislatore europeo del 2013 riferiva l’interesse a ‘la promozione e l’organizzazione della filiera alimentare, comprese la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli, il benessere degli animali e la gestione dei rischi nel settore agricolo, con particolare riguardo al miglioramento della competitività dei produttori primari integrandoli meglio nella filiera agroalimentare attraverso i regimi di qualità’. E dunque, ‘la creazione di un valore aggiunto per i prodotti agricoli, la promozione dei prodotti nei mercati locali, le filiere corte, le associazioni e organizzazioni di produttori e le organizzazioni interprofessionali’.

Filiera corta: una filiera di approvvigionamento formata da un numero limitato di operatori economici che si impegnano a promuovere la cooperazione, lo sviluppo economico locale e stretti rapporti socio-territoriali tra produttori, trasformatori e consumatori.’ (1)

Filiera corta, concetti e valori

Cooperazione e sviluppo economico locale, parole sante, con ‘stretti rapporti’ sociali – oltreché territoriali – tra chi produce, chi trasforma e chi consuma. Applicato alla lettera, il concetto espresso dal legislatore europeo è grossomodo quello del kolchoz. Splendido ma inattuale, purtroppo. Qui e ora si può invece considerare che la ‘filiera corta’ postuli i seguenti requisiti:

– relazioni commerciali dirette tra la produzione agricola primaria, la trasformazione e la distribuzione. Il riferimento a ‘un numero limitato di operatori economici’ appare compatibile con aggregazioni di produttori (es. cooperative e consorzi) ma non certo con le varie fasi di intermediazione che tuttora connotano alcune filiere agricole,

– la fase agricola va localizzata in un ambito territoriale quanto possibile definito e circoscritto. In relazione almeno agli ingredienti primari degli alimenti trasformati. Così la trasformazione che valorizzi le materie prime locali e garantisca la continuità degli approvvigionamenti, nel rispetto di pratiche commerciali leali, può realizzare la ‘cooperazione e sviluppo economico locale’. Quand’anche avvenga in una diversa Regione del Paese, (2)

– la fiducia è di fatto alla base degli ‘stretti rapporti socio-territoriali (…) con i consumatori’. Proprio quella fiducia che tuttora manca, ad esempio, nelle vendite di alimenti da parte dei colossi globali dell’ecommerce. Il rapporto sociale va dunque ricercato nella garanzia della effettiva sostenibilità delle produzioni, il Rispetto cioè di ambiente e popolazioni.

Il patto sociale è dunque il trait d’union che lega i protagonisti della filiera. Agricoltori e allevatori, trasformatori e confezionatori, distributori e consumatori. Ovunque questi ultimi siano basati, la logica rimane quella di una filiera integra from seed to fork e from feed to fork, anche in un’economia digitale e su mercati di varia ampiezza. Senza mai perdere di vista alcuno degli elementi che davvero qualificano una filiera alimentare come sostenibile. Laddove:

– l’agricoltura sostenibile trova vera espressione, di fatto, solo nel sistema biologico, (3)

– il lavoro deve venire garantito, nell’equità delle condizioni e dei diritti. E tracciato, anche nella paga oraria minima, facendo anche ricorso a sistemi innovativi di tracciabilità (es. Wiise Chain),

– le buone prassi commerciali devono altresì venire garantite, introducendo vera trasparenza nella catena del valore. La ‘torta’, vale a dire il prezzo finale dei prodotti, dev’essere leggera, per consentire a tutti i consumatori di poter acquistare alimenti ‘buoni e giusti’. E le fette della torta devono venire ripartite con equità, tenuto conto dell’effettivo contributo di ciascun operatore, nella produzione e nella distribuzione. Solo così si può davvero riferire, sul serio, a ‘stretti rapporti sociali’. Poiché alla ‘cooperazione’ si riferisce, non a subalternità e speculazione.

Filiere eque e rispettose di ecosistemi, individui e benessere animale, fondate sul valore obiettivo di attività umane ed etiche sui territori. Filiere dunque corte, e colte. #WiiseChain, appunto.

#Égalité!

Dario Dongo

Note

(1) Cfr. reg. UE 1305/2013 ‘sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR)’, art. 2.1.m)

(2) La filiera corta è un modello di sviluppo sostenibile che dev’essere in grado di offrire alternativa alla filiera globalizzata. Circoscrivere in un ristretto ambito territoriale (es. livello regionale) le distanze massime tra chi coltiva, chi trasforma e chi distribuisce può di fatto vanificare tali obiettivi

(3) Il riferimento alla sola ‘lotta integrata’ o ‘agricoltura integrata’ va inteso invece come una pratica d’informazione sleale, in contrasto con il reg. UE 1169/11 (articolo 7.1.c). Poiché trattasi di un metodo agronomico prescritto a tutti gli operatori in Europa, la sua semplice affermazione non vale a distinguere un prodotto rispetto ad altri che appartengano alla stessa categoria.

Diverso è il caso di ‘zero residui’ e altre simili diciture (v. https://www.greatitalianfoodtrade.it/etichette/senza-glifosate-residui-zero-valori-e-regole)

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Dario Dongo, avvocato e giornalista, PhD in diritto alimentare internazionale, fondatore di WIISE (FARE - GIFT – Food Times) ed Égalité.

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