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Il ‘vino col bastone’ e la pietra nello stagno

Il ‘vino col bastone’ e la pietra nello stagno

Un’ottima prova dell’efficacia del sistema italiano dei controlli pubblici ufficiali, ieri a Bologna. L’operazione ‘Hydrias’, condotta dalla Guardia di Finanza con la regia della Procura della Repubblica, ha permesso di sventare con prontezza la frode di una grande azienda agricola che mirava a produrre vini di bassa qualità utilizzando zucchero, anzichè mosti d’uva. La vicenda è stata risolta in poche ore, con un solo problema. Non si può gettare la pietra nello stagno e nascondere la mano, poiché si rischia di danneggiare un sistema produttivo onesto e rispettoso. 

La mattina del 18 giugno è stata diffusa l’agenzia di una perquisizione presso ‘un’importante azienda bolognese vitivinicola e nelle case dei responsabili della azienda, indagati per frode in commercio. Le indagini hanno messo in luce un sistema fraudolento per vendere in grandi quantità vini da tavola e mosti ottenuti con materie prime utilizzate per la sofisticazione.’  Nessun pericolo per la salute pubblica, solo il banale caso di una combriccola di furbetti che hanno voluto fare ‘le nozze coi fichi secchi’, anzi il vino con acqua e zucchero, che non produce sciroppo bensì innalza il grado alcolico mediante fermentazione. Quel che un tempo si chiamava il ‘vino col bastone’, per ironizzare su alcuni ‘vinai’ disonesti, e che peraltro é pratica ammessa in altri Paesi come la Francia.

L’Italia è infatti uno dei pochi Paesi al mondo – assieme a Grecia, Spagna e Portogallo – ove il vino deve venire prodotto a partire dai soli mosti d’uva, con rigoroso divieto alla pratica del c.d. ‘zuccheraggio’. E i controlli sulla filiera sono così stringenti da avere subito sventato il malaffare di chi provava a fare il vino ‘alla francese’, cioè impiegando zuccheri di origine diversa come quelli di barbabietola e di canna. Nel caso specifico gli investigatori – intercettati gli autotreni che di notte scaricavano ‘ingenti quantitativi di zucchero di ignota origine’ – sono risaliti a uno storico impianto di produzione vinicola e hanno sequestrato merci per oltre 30 milioni di euro.

All’efficienza degli apparati investigativi non è però purtroppo corrisposta la completezza dell’informazione. Col risultato che lo scandalo di una colossale frode sui vini prodotti da una grande cantina dell’Emilia Romagna, senza rendere nota l’identità dei responsabili, é dilagato in un lampo nei cinque continenti. Arrecando grave danno alla reputazione di una delle prime ‘food valley’ italiana e dei suoi onesti rappresentanti, che sono stati vittime di innumerevoli richieste di rassicurazioni sui mercati internazionali.

E solo diverse ore dopo l’apertura di una crisi globale a danno del comparto vitivinicolo emiliano, sono stati resi noti i nomi degli indiziati,  i due titolari e proprietari delle Cantine Brusa di Dozza (Bologna). Due considerazioni:

1) le pubbliche autorità non possono gestire in questo modo la comunicazione delle loro pur brillanti operazioni. Quando scatta la notizia, é indispensabile circoscriverla subito alla singola azienda che assumerà le proprie responsabilità nelle competenti sedi. Altrimenti, si causa inutile e inopportuno danno alla filiera e al sistema produttivo, financo al sistema-Paese,

2) le Associazioni di rappresentanza del comparto e del territorio, in sinergia con le autorità, devono al più presto isolare i responsabili e fare il possibile per salvaguardare i lavoratori, e i conferitori di uve, per voltare pagina e ristabilire l’ordine necessario al ripristino delle attività condivise, all’insegna della legalità e con il minor danno possibile per le parti sociali interessate.

(Dario Dongo)

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