‘Schiavi del tonno’, sembra una battuta. Viene da pensare alle ossessioni dietetiche di anoressici, ortoressici e palestrati che vivono di lattine di tonno al naturale. Per fare scorta di proteine e niente più. Ma gli schiavi del tonno sono tutt’altro, ed è bene aprire gli occhi. Attenzione a cosa compriamo.
La schiavitù anche minorile purtroppo è ancora diffusa in alcune filiere alimentari. Nelle piantagioni di palma da olio nel Sud-Est asiatico, e in quelle del cacao in Africa occidentale. Ma pure nella pesca e la lavorazione di tonno e conserve ittiche, come abbiamo già denunciato.
Schiavi del tonno, la denuncia dell’ILO
L’ultima denuncia proviene dall’ILO, agenzia ONU per la tutela dei diritti dei lavoratori. Lo ‘International Labour Office‘ ha infatti denunciato la Thailandia, (1) per ripetute violazioni della Convenzione ILO contro il lavoro forzato. (2) Omettendo tra l’altro i doverosi controlli sul traffico di esseri umani. Dei propri stessi cittadini, ‘migranti interni’, oltreché di emigrati dai Paesi vicini più poveri come Laos, Birmania a Cambogia. (3) Senza alcun controllo sulle condizioni di lavoro – spesso in schiavitù – degli addetti a pescherecci, navi-officina e stabilimenti che lavorano al ‘seafood‘. (4)
‘Ogni anno, un numero significativo di lavoratori migranti e cittadini thailandesi cade in trappola nel traffico di esseri umani a fini del lavoro forzato sui pescherecci thailandesi. Una volta sulle barche, i pescatori devono affrontare condizioni deplorevoli, tra cui il mancato pagamento degli stipendi, giornate di lavoro di 20 ore, la schiavitù per debiti, abusi fisici e l’omicidio’ (5)
La relazione ILO descrive l’operato di organizzazioni criminali vere e proprie, radicate nella filiera delle conserve ittiche. Con la ‘corruzione diffusa dei funzionari di governo‘ che forniscono ‘protezione e assistenza‘ a criminali soliti a ‘torturare e uccidere i lavoratori migranti che tentano di fuggire, quale avvertimento per gli altri.’ (6) Oltre alla carenza di cibo, acqua potabile, medicine, alloggi decenti, sicurezza delle condizioni di navigazione.
L’indagine di Greenpeace
Greenpeace South-East Asia ha a sua volta condotto una lunga indagine sulla filiera ittica thailandese, nel 2016, che segue quella già realizzata l’anno precedente da AP (Associated Press). Il rapporto ‘Turn the Tide‘ (7) mostra come nel quarto Paese al mondo per esportazioni di pesce (6,5 miliardi di US$ nel 2015) schiavitù e abusi sui lavoratori siano tuttora in auge. (8) Oltre a pratiche di pesca non ammesse – ‘Illegal, Unreported and Unregulated (IUU) fishing‘ – nelle acque territoriali altrui, come in Indonesia e Papua Nuova Guinea. Ovvero in riserve marine quali la ‘Sava de Malha Bank‘, la secca più estesa del pianeta (nell’Oceano indiano).
Storie dell’altro mondo, verrebbe da dire. Se non fosse che proprio da lì proviene il contenuto di gran parte delle confezioni di tonno e altre conserve ittiche, inclusi surimi e cibo per gatti (9) sui nostri scaffali. E allora, lo sdegno non basta, e le petizioni riscuotono ancora troppa poca attenzione. Le etichette a loro volta, spesso ci illudono con marchi di certificazione che non considerano tali aspetti. O addirittura riflettono mere operazioni di ‘greenwashing‘.
Ecco come i ConsumAttori possono liberare gli schiavi del tonno
È tempo per i consumAttori di informarsi meglio, per imparare a distinguere il tonno e le conserve ittiche ‘buone’ rispetto alle altre. Bisogna compiere scelte d’acquisto sostenibili per davvero. Ma come?
– anzitutto, è utile privilegiare conserve ittiche la cui realizzazione abbia avuto interamente luogo in Italia. (10) Nel rispetto delle norme a tutela dei lavoratori. A partire da pesce intero, anziché da semi-lavorati congelati (loins) sulla cui produzione non si abbiano idonee garanzie su luoghi e metodi di pesca, (11) condizioni di lavoro, sicurezza dei prodotti,
– in secondo luogo, si devono prediligere i prodotti soggetti a certificazioni effettivamente in grado di attestare il rispetto sia dell’ecosistema marino, sia dei lavoratori. Il ‘greenwashing‘ è molto diffuso, poiché i vari simboli sulle confezioni sono spesso riferiti a singoli elementi positivi (12), piuttosto che al sostegno di iniziative svincolate dalla filiera di produzione. (13)
La certificazione MSC (Marine Stewardship Council) a sua volta ‘puzza di bruciato’. (14) Altri addirittura si auto-certificano, sorvolando sulle aree buie. (15). Ad oggi, l’unica certificazione sfuggita a sostanziate critiche è quella di ‘Friends of the Sea‘. (16) In attesa di fare un po’ di ordine…
Schiavi del tonno? No grazie, non più.
Note
(1) La relazione ILO 20.3.17, su http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—relconf/documents/meetingdocument/wcms_549113.pdf
(2) ‘Forced Labour Convention‘, 1930
(3) ‘Gli intermediari (di manodopera, ndr) sono noti per promettere altri tipi di lavoro a terra per convincere i migranti a fare il viaggio in Thailandia. Alcuni pescatori hanno riferito che non sapevano del loro impiego sui pescherecci fino a quando il broker li consegnò a un molo di pesca‘ (rapporto ILO, paragrafo 15)
(4) Preziosi reportage sono offerti altresì da Stefano Liberti, nel suo ultimo libro ‘I Signori del Cibo’. E da Alain de Botton, nel libro ‘Lavorare Piace’ http://www.ilfattoalimentare.it/lavorare-piace-alain-de-botton.html
(5) Relazione ILO, paragrafo 10
(6) Oltre il 65% dei lavoratori ha subito abusi fisici, parecchi hanno assistito a suicidi e omicidi (ILO, paragrafi 21, 67). Vengono altresì riportati sistematiche sottrazioni dei documenti d’identità, isolamento a bordo per lunghi periodi in mare d’altura, assenza di retribuzione (par. 19-20, 65-66)
(7) Il rapporto di Greenpeace, su http://m.greenpeace.org/seasia/PageFiles/745330/Turn-The-Tide.pdf
(8) Testimonianze toccanti sono state riprese dalla Environmental Justice Foundation, nel documentario su http://ejfoundation.org/video/thailands-seafood-slaves. Si vedano anche i cortometraggi di Greenpeace, su http://www.greenpeace.org/italy/it/News1/Il-lato-oscuro-dellindustria-del-tonno/
(9) Greenpeace ha trovato anche a scaffale della GDO italiana (Auchan, Esselunga, Coop Italia) numerose referenze di ‘pet food‘ Nestlé Purina provenienti dalla Thailandia ovvero realizzate da ‘Thai Union Manufacturing Co. Ltd.’ (v. rapporto di cui in nota 7, pagina 68). Su quest’ultimo gruppo, titolare dei marchi Mareblu e John West, tra i tanti, sono state sollevate varie questioni in merito alla sostenibilità e rintracciabilità delle materie prime
(10) Secondo le informazioni raccolte, l’unica industria che garantisce la lavorazione in Italia dell’intera produzione a partire da pesce intero è Asdomar. A seguire, con quote variabili di produzione da intero, si segnalano Callipo, Castiglione-Auriga, Sardanelli. Sempre lieti di raccogliere notizie utili a meglio informare i consumatori
(11) La più grave minaccia all’ecosistema marino è rappresentata dai FAD (Fish Aggregating Device), che attraggono centinaia di specie ittiche spesso protette, in via d’estinzione e comunque estranee ai target specifici di pesca
(12) Come la salvaguardia dei delfini, nella certificazione USA ‘Dolphin Safe‘
(13) È il caso di Mareblu (Thai Union), che contribuisce a un paio di iniziative di Legambiente nel mar Mediterraneo. Senza nessuna garanzia sulla sostenibilità socio-ambientale dei suoi prodotti. E anzi, in direzione opposta…
(14) Al punto che il WWF, uno dei membri fondatori, ha di recente espresso gravi dubbi sulla governance di MSC. Si veda https://www.thetimes.co.uk/article/fishings-blue-tick-benchmark-tainted-by-conflict-of-interest-3qrsr5w0k
(15) Tra gli ‘auto-referenziati’ si citano Rio Mare, Maruzzella, coi suoi principi di ‘Pesca sostenibile’
(16) http://www.friendofthesea.org/
Dario Dongo, avvocato e giornalista, PhD in diritto alimentare internazionale, fondatore di WIISE (FARE - GIFT – Food Times) ed Égalité.