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Sacchetti bio, pericolo inganni

Sacchetti biodegradabili a pagamento, è la regola in Italia dall’1 gennaio 2018. Le buste per alimenti in materiale ultraleggero (<15 micron) devono però rispondere a requisiti specifici. Pericolo inganni per la GDO e la distribuzione tradizionale, gli artigiani e i venditori ambulanti, le farmacie.

Sacchetti bio, le prime reazioni dei consumatori

L’obbligo di impiegare sacchetti bio quale imballo primario per frutta, verdura e altri alimenti sfusi – e di imporne il pagamento tracciato su scontrino, da parte del consumatore finale (1) – ha raccolto un’attenzione straordinaria nei mainstream media. Causando altresì reazioni spropositate nelle tendenze di consumo. Secondo i primi sondaggi, il 44% dei consumatori in poche settimane avrebbe già modificato gli acquisti di ortofrutta. Orientandosi sia verso i preincarti, al supermercato, sia verso la distribuzione tradizionale, che impiega sacchetti di carta non soggetti a pagamento ad hoc.

Nonostante l’impatto relativamente modesto dei sacchetti bio sulle spese complessive (stimato in circa 12 euro l’anno, per una famiglia di 3 persone), la misura è stata perciò accolta con disfavore da parte dei consumatori. Sebbene i loro prezzi – che variano da un supermercato all’altro, tra 1 e 3 centesimi – siano comunque inferiori rispetto a quelli dei sacchetti per la raccolta del rifiuto umido, cui gli stessi possono venire destinati. (2) 

Sacchetti bio, dettagli tecnici e pericolo inganni

Dal punto di vista tecnico, la misura appare a prima vista simile a quella che in Italia ha già interessato i c.d. ‘shopper’, cioè le tradizionali buste in plastica leggere (<50 micron) utilizzate nei negozi come in tutte le attività commerciali. Ma non è così.
Un primo ragionamento può essere fatto in ragione dei prezzi applicati.

I sacchetti biodegradabili ultraleggeri, secondo la nuova norma, (3) devono infatti essere conformi ai parametri di biodegradabilità e compostabilità imposti dalla norma UNI 13432, oltre a essere compatibili con il contatto con gli alimenti

E devono avere un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%, che dovrà raggiungere il 50% nel 2020 e il 60% nel 2021.

Il contenuto minimo di materia prima rinnovabile tuttavia va calcolato come rapporto tra la percentuale di carbonio di origine biologica presente nel sacchetto e il carbonio totale ivi contenuto. Applicando lo standard internazionale vigente in materia, UNI/CEN/TS 16640. Non è perciò sufficiente calcolare la quota di materia prima rinnovabile (il polimero biobased), immessa nell’estrusore.

In pratica, bisogna calcolare l’impronta carbonica (carbon footprint) da fonte rinnovabile contenuta nel sacchetto. Poiché la legge – nel prescrivere che i sacchetti bio contengano ‘come minimo materia prima rinnovabile non inferiore al 40%’ – fa esplicito riferimento alla ‘norma UNI 16640’, vale a dire lo standard internazionale di cui sopra.

Il pericolo inganno – che incombe sulla GDO (Grande Distribuzione Organizzata) e la distribuzione tradizionale, gli artigiani e i venditori ambulanti, oltre alle farmacie – è legato all’offerta di sacchetti biodegradabili realizzati sì con un contenuto minimo di materia rinnovabile del 40%, ma con un’impronta carbonica da fonte rinnovabile inferiore al 40%. Perciò fuorilegge. Dietro l’apparente risparmio, il rischio di incorrere in sanzioni da 2.500 a 25.000 euro, fino a 100.000 nei casi più gravi. (4)

Il mercato globale delle plastiche biodegradabili sta vivendo una crescita straordinaria, con previsione di raddoppio nei prossimi anni. Gli esercizi commerciali in Italia devono perciò prestare grande attenzione alle offerte – dal Far East in particolare – di sacchetti ultraleggeri a prezzi largamente inferiori rispetto alla media di mercato. I quali potrebbero risultare fuorilegge a causa di un’impronta carbonica da fonte rinnovabile ben inferiore al 40% richiesto.

Sacchetti biodegradabili fuorilegge, come distinguerli?

Nella fase di acquisto di sacchetti ultraleggeri bio, l’operatore commerciale deve anzitutto verificare la presenza del nome del produttore (o importatore), la dichiarazione di conformità all’uso alimentare e la dicitura ‘conforme alle norme EN 13432 e UNI 16640’.

È opportuno richiedere al fornitore i contatti di produttore o importatore e soprattutto i certificati di conformità dei materiali che hanno utilizzato per produrre il sacchetto. Dati e documenti la cui esistenza e conformità rappresentano condizione essenziale per accertare la rispondenza dei sacchetti biodegradabili ai requisiti di legge.

Tenendo a mente che in Europa i produttori di polimeri in grado di vantare una certificazione ‘ok biobased’ che comprenda la conformità alla UNI/CEN/TS 16640 si contano sulle dita di una mano. La tentazione di cedere alla lusinga di importatori senza scrupoli con prezzi competitivi è reale quanto pericolosa.

Luca Foltran e Dario Dongo

Note

(1) Cfr. D.L. 91/17, convertito con modifiche in legge 123/17. Si veda l’articolo 9-bis, su http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/08/12/17A05735/sg

(2) Con l’accortezza di togliere l’adesivo in carta stampata, il quale invece non è compatibile con il rifiuto umido 

(3) V. nota 1

(4) Senza escludere il rischio di contestazione del delitto di frode in commercio (codice penale, articolo 515). Che si configura nella vendita di aliud pro alio, vale a dire di prodotti di caratteristiche e qualità inferiori rispetto a quelle promesse. Come appunto nel caso di vendita di sacchetti ultraleggeri fuorilegge.

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