Fair trade, commercio equo e solidale. Il piccolo marchio ridonda tra i cesti e gli omaggi natalizi, segno di un briciolo di umanità a buon prezzo che affiora anche dai cuori più cupi. Ma cosa vuol dire ‘equo’, cosa c’è dietro questo logo? Il Natale che noi tutti vorremmo, ogni santo giorno, in qualsiasi angolo del pianeta.
Fair trade, i valori dietro un logo
Commercio equo è un’allegoria, due parole di vocabolario esprimono un concetto astratto, così ampio e indefinito da non poter soggiacere a una efficace regolazione cogente. Poiché bisogna coprire la filiera di produzione e distribuzione nella sua interezza, dalla produzione agricola primaria ovunque basata fino alla distribuzione e la consegna al consumatore finale. Dalla fava di cacao al cioccolatino, #NoOneLeftBehind. Una definizione di commercio equo è stata comunque elaborata, nel 2001, dalle quattro principali organizzazioni che se ne occupano.
‘Il fair trade è una partnership commerciale basata sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che persegue una maggiore equità nel commercio internazionale, contribuisce allo sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali e garantendo i diritti dei produttori e dei lavoratori emarginati, specialmente nel Sud (del mondo)’
Di ‘commercio’ si tratta, poiché è questa la leva che attiva gli scambi nell’economia capitalista. Ma di un commercio ‘buono’, come il nostro sito – che infatti pure riferisce al ‘trade’ – da sempre invoca in ogni possibile declinazione. Il rispetto dei diritti umani fondamentali è la priorità da cui non si può prescindere, ed è perciò tra l’altro che abbiamo avviato in Italia la battaglia contro l’olio di palma, a tutt’oggi il primo movente delle rapine delle terre sul pianeta.
I criteri a base del ‘Fair Trade’e dei suoi sistemi di certificazione possono venire riassunti nell’ABC che segue.
A) Diritti umani
Children first. La Convenzione ONU per i diritti dei bambini (OHCHR)è stata adottata nel 1989 e aggiornata, nel 1995, per estendere la tutela essenziale a tutti i minori di 18 anni. (1) La schiavitù minorile è peraltro a tutt’oggi la prassi, anche nelle filiere che approvvigionano Big Food. Palma e cacao guidano la vergogna. Con l’aggravante di esporre i minori a pesticidi venefici, senza protezioni.
Riconoscere i diritti dei minori, la parità di genere, l’inclusione sociale – e attuarli in concreto, nelle attività agricole e produttive – è la premessa per accedere ai programmi di commercio equo.
B) Diritti dei contadini
I diritti dei contadini e delle comunità rurali sono oggetto di una recente dichiarazione ONU. Gli agricoltori e i trasformatori di alimenti a breve riceveranno tutela, in Europa, rispetto alle pratiche commerciali inique poste in essere dalla distribuzione.
La catena del valore è però invertita, poiché sono sempre gli operatori a valle – intermediari commerciali, importatori e distributori in particolare – a realizzare i grandi profitti, a discapito dei campesinos. La filiera equa ambisce perciò a creare opportunità per le comunità agricole svantaggiate, in primis nei Paesi in via di sviluppo.
Ai produttori viene riconosciuto un maggior prezzo delle derrate, rispetto alle possibili alternative (prassi commerciali o quotazioni internazionali). Si devono altresì instaurare relazioni trasparenti che consentano di dimostrare e condividere, anche con i consumatori finali, la redistribuzione del valore nell’intero corso della filiera.
C) Diritti delle comunità e dell’ambiente
La cooperazione è un elemento essenziale della filiera equa. I cui promotori hanno il compito di trasferire conoscenze (knowledge transfer) e favorire lo sviluppo delle infrastrutture (capacitybuilding). Per consolidare il valore delle filiere produttive, migliorare le condizioni di vita delle comunità locali, favorire lo sviluppo sostenibile.
Nel rispetto dei lavoratori – che devono lavorare in condizioni di sicurezza, e potersi organizzare in sindacati – e degli individui. I quali devono venire sottratti a condizioni di povertà estrema, avere accesso a cibo nutriente e acqua potabile, accedere all’istruzione e alla salute. Per realizzare in pratica i Sustainable Development Goals (SDGs) solo in teoria affermati dai Paesi aderenti all’ONU.
Commercio equo e solidale, storia e certificazioni
Il commercio equo solidale è un movimento nato a metà del secolo scorso. Grazie ad alcuni gruppi di benpensanti europei e americani che a partire dagli anni ‘50, presero atto delle inaccettabili disuguaglianze provocate dallo sfruttamento dei popoli del ‘Sud’ del pianeta. Tra il colonialismo storico e il neocolonialismo tuttora in atto, i pionieri del ‘fair trade’ decisero di intervenire con gli strumenti di mercato, laddove spesso le rivoluzioni non sono bastate.
Il meccanismo a base del ‘fair trade’ è dunque quello di riconoscere un prezzo più ‘equo’ alle produzioni locali, abbreviando ove possibile la filiera di distribuzione. Per prevenire il rischio di speculazioni alle spalle di comunità indifese negli anni ‘90 Paul Rice, fondatore di ‘Fair Trade USA, si adoperò per elaborare uno standard internazionale. Con l’obiettivo di monitorare e garantire l’idoneità delle pratiche di commercio equo, portate avanti frattanto da varie organizzazioni, rispetto agli obiettivi condivisi. È nata così la ‘Fair Trade Certification, uno degli standard di commercio equo solidali più noto (insieme ad esempio a Fairtrade, ‘Fair for life’, Equo Garantito) che oggi conta oltre 1250 aziende e copre più di 900.000 donne e uomini, tra agricoltori e lavoratori.
Il percorso formativo
La certificazione richiede un percorso formativo rigoroso e complesso che richiede in genere una preparazione di almeno 6-9 mesi, trawebinar introduttivi, incontri con il management e i lavoratori, audit di terza parte ripetuti nel tempo. Una volta messa a punto, collaudata e monitorata una filiera etica, si deve poi dare vita al c.d. ‘Premium Fund’. I lavoratori devono cioè collaborare con il comitato ‘Fair Trade’ per realizzare un progetto condiviso, a beneficio della collettività dei lavoratori.
Il ‘Premium Fund’ è un progetto partecipato che non ha nulla a che vedere con le donazioni. Le quali, per quanto utili nel breve termine, di per sé non bastano a garantire alle comunità prospettive di sostentamento nel medio-lungo periodo. È perciò indispensabile lavorare a ‘capacity building’, ‘capacity development’ e ‘capacity strenghtening’. Con soluzioni concrete e coerenti alle esigenze specifiche, come ad esempio i mezzi di trasporto per lavoratori, gli asili vicino ai luoghi di lavoro, le scuole e i presidi sanitari.
Filiere eque in svariati contesti, geografici e produttivi
Lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura è una piaga ben nota anche in Italia, oltreché in Spagna, senza bisogno di guardare oltre. L’abominio è diffuso e le autorità non sono ancora in grado, purtroppo, di arginarlo. Esistono tuttavia gli esempi virtuosi di filiere etiche che respingono ogni forma di sfruttamento e si sottopongono perciò ad apposite certificazioni. Come il progetto ‘Buoni e Giusti’ di Coop Italia e lo standard SA8000 che la stessa Coop – prima catena della GDO in Italia – ha introdotto già da una ventina d’anni.
Il lavoro a domicilio è infine un altro fenomeno degno di nota e al contempo sottostimato, ove lo sfruttamento domina in vari contesti geografici e produttivi. Gli ‘homeworkers’ sono almeno 300 milioni, secondo i dati ILO (‘International Labour Organization’). In prevalenza donne, costrette a lavorare da casa per esigenze di sicurezza o precetti sociali e religiosi. Questa forma di lavoro è essenziale asostenere il reddito delle famiglie, ma spesso si trasforma in una schiavitù – anche minorile – mascherata dietro sub-appalti anche a servizio di colossi industriali globali. A garantire la dignità del lavoro a domicilio si occupa, tra gli altri, la ONG Nest.
Conclusioni
Il commercio e le filiere a esso sottese dovrebbero sempre essere ‘fair’, nel rispetto dei principi cristallizzati in varie convenzioni internazionali. È una questione di legalità, alla quale i protagonisti della produzione e degli scambi internazionali tuttavia si sottraggono spesso, talora in via sistematica.
Il ruolo dei consumAttori, ancora una volta, è quello di imporre il cambiamento. Mediante scelte responsabili di acquisto dei soli prodotti e servizi in grado di garantire l’effettiva eticità dell’intera filiera. Fino all’ultimo miglio, quello che separa le merci dai magazzini logistici alle nostre case, in ipotesi di consegne a domicilio.
Si deve rifuggire l’acquisto di merci che possano alimentare la catena dello sfruttamento, con attenzione a quelle filiere critiche come l’ortofrutta e l’olio di palma. Su frutta e verdura le relazioni dirette con i produttori e le certificazioni possono offrire idonee garanzie. Sull’olio di palma invece non c’è scampo, la profanazione dei diritti umani e dell’ambiente è la regola – a dispetto delle vacue promesse di ‘sostenibilità’ – e va dunque evitato.
I consumAttori – soprattutto i più giovani – hanno gli strumenti e l’attenzione che servono per votare un mondo migliore, con le scelte quotidiane di acquisti e servizi. Facciamone tutti buon uso, affinché il Natale sia per tutti e si rinnovi ogni giorno, ovunque, senza abusi né inganni.
#Égalité!
Dario Dongo e Giulia Baldelli
Note
(1) UN Convention on the Rights of the Child, OHCHR, su https://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/crc.aspx