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Acquacoltura biologica, l’ultima chance

Aumentare il consumo di pesce senza esaurire le scorte ittiche né sottoporre a stress ambientale i bacini idrici, come fare? Nell’acquacoltura biologica una possibile soluzione.

Garantire alle popolazioni del pianeta il consumo regolare di prodotti ittici è una delle priorità che ricorrono nelle linee guida nutrizionali. Con l’obiettivo di offrire proteine e ‘grassi buoni (Omega 3) a una popolazione globale in crescita che è tuttora afflitta dalla malnutrizione diffusa, a partire dalla prima infanzia.

L’acquacoltura sostenibile, quella bio in particolare, costituisce un’opportunità per assolvere a tali obiettivi grazie a pratiche di allevamento rispettosi dell’ecosistema e del benessere animale. Riceve quindi il sostegno, in Italia, anche da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo (MiPAAFT). Attraverso il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea).

Mari senza pesci

Lo scenario distopico di mari, lagune, laghi e fiumi senza pesci è sempre più vicino alla realtà. A causa della pesca illegale (Illegal, Unreported and Unregulated fishing), ma anche delle scellerate politiche europee. La Politica Comune della Pesca (Common Fisheries Policy, CFP), nella riforma del 2014, ha invero teorizzato l’obiettivo di salvaguardia degli stock ittici.

La politica europea della pesca ha attribuito a ciascuno Stato membro, nel periodo 2015-2020, appositi limiti di cattura (Total Allowable Catch, TAC). Ma tali limiti vengono ri-definiti ogni anno al Consiglio degli Stati membri (EU Agriculture and Fisheries Council) mediante compromessi politici, anziché in base alle dimensioni della popolazione ittica e ai rischi di estinzione delle specie a rischio. E risultano manifestamente eccessivi rispetto agli obiettivi dichiarati.

Le quote di pesca UE risultano sproporzionate con le raccomandazioni scientifiche dell’International Council for the Exploration of the Sea (ICES, organizzazione a cui l’Italia non aderisce). (1) È la denuncia di New Economics Foundation (NEF), che anche quest’anno evidenzia l’inaccettabile divario tra le quote concesse nel Nord-est Atlantico rispetto ai limiti sopportabili dall’habitat marino. (2)

Acquacoltura, prospettive e limiti

A livello teorico, l’acquacoltura rappresenta una valida alternativa alla pesca per favorire la disponibilità di prodotti ittici. Ma anche questo metodo di produzione ha i suoi lati oscuri.

L’acquacoltura è il settore di produzione alimentare in maggior crescita a livello mondiale. Tuttavia, ad alcuni degli impatti negativi di questa attività è stato dato molto risalto, tra questi lo sfruttamento degli stock selvatici di piccoli pelagici per la produzione di farine di pesce, la fuga di specie aliene o di individui geneticamente modificati, la diffusione di patologie a danno degli stock naturali, il rilascio di inquinanti nell’ambiente circostante‘ (Crea, dossier ‘Il consumo di pesce allevato e biologico in Italia‘).

Il #cambiamento è possibile e anzi doveroso. Bisogna invertire la rotta, adottando pratiche di acquacoltura sostenibile, meglio ancora se bio. Ancora una volta il progresso è nelle mani dei consumaAttori, i quali devono venire informati per maturare consapevolezza sul valore dei prodotti che provengano da acquacoltura bio certificata. Ed è questo uno degli obiettivi del progetto #Biobreed, finanziato dal ministero delle Politiche agricole e condotto dal Crea.

Acquacoltura in Italia

L’acquacoltura Made in Italy si distingue rispetto a quella di altri Paesi UE per la maggiore varietà delle specie allevate, di recente estesa anche alle ombrine.

Le prime 5 specie prodotte nel 2016 sono:

– mitili (Mytilus galloprovincialis), più comunemente noto come cozze (o muscoli, peoci, pedoli, moscioli, da una Regione all’altra), 5.898 tonnellate,

– trota iridea (Oncorhynchus mykiss), 900 ton,

– vongola verace (Ruditapes philippinarum), 263,6 ton,

– orata (Sparus aurata), 96,9 ton,

– cefalo (Mullet), 89 ton.

L’acquacoltura bio è invece ancora in fase embrionale. La presentazione dei ricercatori Crea alla fiera di settore #AquaFarm – il 13-14.2.19 a Pordenone – indica appena 29 allevamenti bio (5 dei quali hanno avviato la produzione biologica nel 2017). In calo rispetto al 2015, quando gli operatori erano 40. Un sassolino nel lago, a fronte degli oltre 3mila impianti di acquacoltura convenzionale, con una crescita prossima al 60%. (3) Nonché purtroppo fanalino di coda in Europa, ove gli allevamenti bio rappresentano in media il 4% dell’acquacoltura. (4)

Acquacoltura bio, sondaggio sui consumatori italiani

8 mila risposte sono state finora raccolte ed elaborate dal Crea, nell’indagine volta a verificare l’interesse dei consumatori in Italia verso l’acquacoltura bio.

Il 52% dei consumatori italiani si dichiara disposto a valorizzare i prodotti che derivano da pesca sostenibile o acquacoltura biologica, riconoscendo un maggior prezzo per il loro acquisto. Le motivazioni sono simili a quelle che soffiano sulla crescita dell’intero settore agroalimentare bio:

assenza di antibiotici durante il processo di allevamento (58%),

– maggiori controlli nell’intero arco della filiera (47%),

– minor impatto ambientale (34%). 

I prodotti di acquacoltura continuano a mietere consensi presso i consumatori quale alternativa al pescato nei consumi ordinari degli italiani, rilevano i ricercatori. Il 30% del campione acquista pesce allevato meno di una volta al mese, spendendo 20-50 euro al mese. Il fresco va per la maggiore (84%) e il luogo di acquisto è soprattutto il supermercato (87%). Il pesce marino è il prodotto d’allevamento acquistato in prevalenza (77%), seguito da molluschi (48%), crostacei (37%) e pesce d’acqua dolce (31%).

Marta Strinati e Dario Dongo

Note

(1) L’International Council for the Exploration of the Sea (ICES) opera dal 1902. In 116 anni di storia, l’Italia è ne è stato membro per 22 anni (nei periodi 1927-1931 e 1956-1974). Attualmente vi partecipano Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Russia, Regno Unito, Belgio, Stati Uniti, Francia, Portogallo, Polonia, Lettonia, Estonia, Spagna, Irlanda, Islanda, Canada e Lituania

(2) Nell’Atlantico nord-orientale, Svezia, Regno Unito e Irlanda sono gli Stati membri con le maggiori quote di TAC rispetto ai limiti raccomandati da ICES. Con sforamenti, rispettivamente, del 52%, 24% e 22%

(3) Fonte Centro Studi Confagricoltura, elaborazione dati estratti dalla banca dati nazionale, dati 2017 (Anagrafe Zootecnica istituita dal Ministero della Salute presso l’Istituto G. Caporale di Teramo)

(4) Fonte Eumofa (European Market Observatory for fisheries and aquaculture), dati 2015

Marta Strinati

Giornalista professionista dal gennaio 1995, ha lavorato per quotidiani (Il Messaggero, Paese Sera, La Stampa) e periodici (NumeroUno, Il Salvagente). Autrice di inchieste giornalistiche sul food, ha pubblicato il volume "Leggere le etichette per sapere cosa mangiamo".

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