Soprusi e devastazione nelle Filippine a opera dei ‘palmocrati’. Il reportage di Dario Novellino, intervistato da Dario Dongo
Prosegue l’inchiesta sull’olio di palma, alle radici del male. Dopo le analisi su Indonesia e Malesia, i cui soli territori esprimono l’85% della produzione globale, (1) guardiamo ora alle Filippine. Grazie alla testimonianza di un amico, Dario Novellino, un antropologo italiano che ha dedicato i propri impegni al sostegno delle popolazioni indigene, nella lotta contro il land grabbing, la rapina delle terre.
Un attivista italiano al fianco delle popolazioni indigene di Palawan. Dario, come inizia questa storia?
Nel 1986, all’età di 23 anni, viaggiavo e documentavo come free-lance la vita e le problematiche di vari gruppi indigeni, soprattutto nel Sudest Asiatico. Poi, giunto a Palawan, nelle Filippine, sono rimasto incantato dalla bellezza incontaminata di quei luoghi e ho iniziato a vivere con tribù molto isolate imparandone la lingua, le pratiche di caccia e raccolta, i riti sciamanici. Dopo circa un anno sono diventato ‘fratello di sangue’ di Timbay, un indigeno Batak. Si tratta di un gruppo di agricoltori nomadi e cacciatori e raccoglitori sull’orlo dell’estinzione demografica e culturale (ne restano oggi meno di 300!).
Il mio legame con gli indigeni Batak, grazie a Timbay, mi ha permesso di essere accettato a tutti gli effetti all’interno del loro gruppo. In seguito, quando le compagnie del legname hanno iniziato a penetrare quelle foreste millenarie, io mi sono trovato di fronte ad una scelta improcrastinabile: rimanere lì o rientrare nel mio paese. Ho scelto ovviamente la prima opzione e, utilizzando tutti gli strumenti a mia disposizione, ho iniziato ad organizzare la comunità Batak, insegnando loro strumenti di difesa legale di cui ignoravano l’esistenza, come la preparazione di una semplice petizione da inviare al Governo, per richiedere la cancellazione delle concessioni del legname nei loro territori.
Dopo alcuni mesi di duro lavoro, il Dipartimento alle Foreste accolse le nostre richieste, revocando il permesso alla compagnia del legname. Quella foresta venne risparmiata e fu quella la prima vittoria! Tuttavia, per aver calpestato i piedi a uomini d’affari molto influenti, diventai presto ‘persona non grata’ e ciò mi costrinse a far ritorno in Europa alla ricerca di un’identità accademica’ che mi avrebbe permesso, poi, di rientrare a Palawan sotto le vesti di ricercatore. Oggi il mio PhD in antropologia ambientale, conseguito all’Università di Kent (UK), mi permette di esprimere una voce più autorevole, soprattutto nel dialogo con le istituzioni. Tuttavia non ho mai intrapreso una carriera accademica, e continuo ad appoggiare la resistenza pacifica dei popoli indigeni di Palawan contro lo sfruttamento dissennato dei loro territori.
Coalition Against Land Grabbing (CALG), dove e quando nasce?
Alcuni anni or sono ho iniziato ad attraversare il Sud dell’isola di Palawan in lungo e in largo, assieme a un gruppo di volontari indigeni, un computer alimentato da una batteria d’auto, un piccolo proiettore e uno schermo. Mostravamo, in ogni villaggio che incontravamo sul nostro cammino, piccoli filmati circa l’impatto ambientale e sociale dell’estrazione mineraria e delle monoculture della palma da olio. Portavamo con noi le testimonianze audiovisive di altre comunità indigene che avevano già perso buona parte dei loro territori e risorse naturali. Poi la sera editavo quei filmati in foresta, aggiungendo le nuove testimonianze raccolte, fino a creare un prodotto assolutamente co-partecipato. Uno strumento davvero efficace, che ha reso consapevoli molti indigeni di ciò che sarebbe potuto toccare anche a loro nel giro di pochi mesi o settimane.
Alcune delle persone che incontravamo sul cammino si univano a noi e con loro è nato un legame di vera fratellanza, nonché l’idea di costituire un’associazione indigena legalmente riconosciuta, che avrebbe dovuto contrastare l’avanzata delle monocolture della palma da olio. Nasce così la Coalizione contro la Rapina delle Terre (Coalition against Land Grabbing, CALG) che, attualmente, offre assistenza para-legale alle comunità indigene, aiutandole a difendere i propri diritti e a demarcare i territori ancestrali.
Il 29.9.2014 abbiamo presentato una petizione al governo filippino, firmata da 4.200 membri delle comunità assediate dalle piantagioni, con la richiesta di una moratoria su ogni futura espansione delle piantagioni di palma da olio. A livello internazionale, in collaborazione con l’organizzazione Rainforest Rescue abbiamo raccolto online oltre 170.000 firme, per fermare l’avanzata delle monoculture a Palawan. Le risposte e rassicurazioni del governo sono tuttavia ad oggi vaghe e insufficienti.
Qual è la situazione dell’olio di palma nelle Filippine, quale l’evoluzione del fenomeno negli ultimi anni?
L’espansione della monocultura di palma da olio nelle Filippine va inquadrata in un contesto ecologico estremamente fragile. Basti pensare che soltanto il 5% della superfice del paese beneficia di qualche forma di protezione legale, mentre – secondo la FAO – già nel 2005 poco più dell’11% del paese era ancora ricoperto di foresta primaria. Palawan è considerata l’ultima frontiera ecologica ed è perciò diventata, nel 1990, una ‘Riserva della Biosfera’ dell’UNESCO. Al momento circa 60,000 ettari sono stati convertiti in piantagioni di palme da olio, soprattutto a Mindanao e Palawan.
Il governo filippino aspira a soddisfare la domanda interna di olio di palma (20 milioni di tonnellate l’anno), con l’ulteriore ambizione di diventare uno dei principali esportatori del Sudest Asiatico. In diretta competizione con Malesia e Indonesia, le cui piantagioni già coprono una superfice cinque volte più estesa della Svizzera, fino a raggiungere l’85-90% della produzione globale di olio di palma, oltre 55 milioni di tonnellate. Esiste un accordo di libero scambio – siglato da Malesia, Indonesia, Brunei e Filippine – che prevede l’espansione di scambi industriali e lo sfruttamento di risorse naturali nei rispettivi paesi firmatari, quasi in pressoché totale assenza di protocolli per la tutela di ambiente e popolazioni.
Il cosiddetto BIMP-EAGA – the Brunei-Indonesia-Malaysia-Philippines East ASEAN Growth Area – sta rendendo Palawan sempre più vulnerabile all’ingresso di investitori stranieri, soprattutto nel comparto della palma da olio.
Le politiche del Presidente Rodrigo Duterte, per quanto riguarda il settore industriale agricolo, non si discostano da quelle di Benigno Aquiño, suo predecessore. L’amministrazione Aquiño aveva proposto l’espansione delle coltivazioni di palma da olio su circa un milione di ettari, in particolare a Palawan e Mindanao. In modo analogo, Duterte ha approvato la conversione aggiuntiva di 128,000 ettari ad Agusan del Sur (Mindanao), firmando altresì un accordo con la Malesia che prevede investimenti per 200 milioni di dollari nel settore della palma da olio.
A Palawan già dal 2006 operano in tandem due imprese produttrici di olio di palma, a partecipazione mista, la Agumil Philippines Inc. (controllata al 75% da filippini, con partecipazione malese al 25%) e la PPVOMI (Palawan Palm and Vegetable Oil Mills Inc., controllata da un gruppo di Singapore al 60%, con il restante 40% in mani filippine). A queste si aggiungono altri gruppi attivi nel comparto agro-industriale come San Andres, e l’ultima arrivata Alif, un grande gruppo commerciale con sedi regionali in Medio Oriente, Bangladesh, India, USA e una filiale in Malesia. Le violazioni ambientali e dei diritti delle comunità locali commesse da Agumil e San Adres sono ben note e ampiamente documentate da CALG.
Ciò che più preoccupa è la recente decisione di Duterte di aprire alle Corporation i territori indigeni ancestrali, sacrificando le economie di sussistenza tradizionali e la sovranità alimentare dei popoli locali per favorire progetti a forte impatto ambientale, come le monoculture della palma da olio. ‘Con la promessa di un posto di lavoro vogliono rubarci le nostre terre, le nostre risorse, il nostro futuro. Ciò che invece il Presidente dovrebbe fare è valorizzare la nostra economia di sussistenza che non devasta l’ambiente ma lo tutela, preservando le varietà di piante coltivate che resistono meglio ai cambiamenti climatici ed assicurano, da sempre, un sostentamento costante alle nostre famiglie’, spiega John Mart Salunday dell’etnia Tagbanua e membro fondatore di CALG.
L’ambizione di Duterte di voler ‘sviluppare i territori indigeni’ è in contrapposizione con il mandato della Commissione Nazionale sulle Popolazioni Indigene (NCIP), l’agenzia di governo responsabile per l’attuazione di un decreto presidenziale del 1997 (The Indigenous People’s Rights Act), meglio conosciuto come ‘IPRA law’. Tale legge infatti riconosce, protegge e promuove i diritti delle comunità native. Ma Duterte ha richiesto di tagliare drasticamente il budget governativo a disposizione di NCIP, così come quello stanziato per la Commissione Filippina per i Diritti Umani.
Oltre a credere che le piantagioni di palma da olio costituiscano un volano per l’economia rurale, il Presidente ritiene che l’ingresso delle Corporation rappresenti il miglior deterrente contro la guerriglia comunista (New’s People Army) che, da quasi mezzo secolo, dilaga nel paese. ‘Duterte vuole schierare i soldati nell’entroterra per difendere le infrastrutture e gli investimenti delle Corporation. La militarizzazione dei nostri territori porterà soltanto nuove violazioni dei diritti umani’, afferma Salunday. È della stessa opinione Jerome Aba dell’organizzazione Sandugo, secondo il quale ‘almeno 30 indigeni sono già stati uccisi dall’inizio del regime di Duterte, nel tentativo di difendere le loro terre dalle Corporation’.
Se le leggi a tutela degli indigeni esistono, perché è così difficile implementarle?
In aggiunta alla legge IPRA (Indigenous People’s Rights Act), le Filippine dispongono di altre leggi fondamentali che tutelano l’ambiente. Basti pensare che la salvaguardia di Palawan è affidata a un piano di gestione ambientale molto complesso, lo ‘Strategic Environmental Plan (SEP)’ che ha ricevuto un importante sostegno – anche finanziario – dall’Unione Europea. Il Piano è stato recepito in un’apposita legge (Republic Act 7611) e la sua implementazione è stata affidata all’agenzia governativa ‘The Palawan Council for Sustainable Development’ (PCSD). Questa legge prescrive che tutti i progetti a impatto ambientale debbano ottenere un’autorizzazione preliminare, chiamata ‘SEP Clearance’, prima di procedere alla loro realizzazione. Lascia perciò esterrefatti la costatazione che alle Corporation della palma da olio sia invece stato consentito di operare senza il suddetto permesso. L’unico ‘SEP Clearance’ rilasciato ai magnati della palma riguarda un’area di soli 13 ettari – che comprende le infrastrutture per l’estrazione dell’olio di palma e un vivaio – mentre l’area convertita in piantagioni supera oggi i 9,000 ettari!
Il presidente Duterte, eletto nel 2016, aveva annunciato di voler riformare la Costituzione in senso federalista per togliere il potere alle dinastie politiche della cosiddetta ‘Imperial Manila’, ma di fatto sta svendendo il paese alle Corporation straniere, come quelle dei ‘palmocrati’ malesi. Ed è chiaro come non sia la legge a controllare la politica, ma l’esatto contrario. Potenti famiglie e influenti uomini d’affari paralizzano sistematicamente l’attuazione delle leggi a tutela dell’ambiente e delle classi più deboli. La successione di sei presidenti diversi – dalla caduta del dittatore Marcos, nel 1986 – non è riuscita a tirare fuori il paese dalla stagnazione socio-politica. L’intero sistema elettorale è totalmente controllato dalle oligarchie che lottano per accaparrarsi le ultime risorse naturali, minando il futuro di milioni di filippini.
A complicare il tutto è un sistema giuridico inefficiente e opaco, incapace di garantire procedure amministrative e giudiziarie credibili e trasparenti. CALG ha denunciato le Corporation della palma da olio in svariate occasioni, ma le cause in tribunale procedono lentissime, le spese legali diventano insostenibili, e i processi tendono a concludersi senza alcuna condanna verso chi, come Agumil, ha commesso crimini ambientali.
Cosa significa ‘palma’ per l’ambiente, le comunità indigene e i piccoli agricoltori?
La coltivazione della palma da olio comporta la rimozione sistematica della vegetazione preesistente e di conseguenza anche degli animali che vi risiedono.
Il paesaggio naturale del Sud di Palawan è stato frammentato, le aree a monocultura si alternano a zone di foresta primaria e secondaria interrompendo i corridoi naturali che servono alle varie specie per spostarsi da una nicchia ecologica all’altra. L’impatto sull’ecosistema fluviale e marino è altrettanto grave, a ogni tonnellata di olio raffinato corrispondono almeno 2.5 tonnellate di liquami i quali vengono scaricati in buona parte nei fiumi che, raggiungendo il mare, contaminano la barriera corallina e gli ambienti costieri (foreste di mangrovie, etc.).
Scompaiono inoltre le specie vegetali spontanee – come rattan, bambù, palme Licuala e Coripha, che gli indigeni impiegano sia per scopi domestici e lavorativi (costruzione dei tetti delle capanne, piante medicinali e molte altre destinazioni). L’intero repertorio culturale è minacciato. È emblematico il caso della comunità Palawan di Sarong, la cui foresta è stata interamente distrutta dalle imprese della palma da olio. Oggi gli indigeni non solo non trovano più le piante con cui curarsi, ma nemmeno quelle per costruire oggetti rituali e di uso comune.
Altrettanto drammatica la scomparsa degli animali-preda dei cacciatori, come il cinghiale, e la drastica riduzione del miele selvatico causata del collasso della popolazione di api. Inoltre le piantagioni si sostituiscono anche ai campi messi a coltura dagli indigeni, causando la perdita delle varietà locali. Basti pensare che, a Palawan, gli indigeni hanno selezionato oltre 70 varietà di riso di montagna e molte di queste sono adesso introvabili. Il riso, secondo gli indigeni, ha ‘una natura umana’, è parte integrante dei loro miti di fondazione e occupa un ruolo primario in molti rituali e riti sciamanici.
Alcune famiglie indigene, nonostante l’invasione delle compagnie della palma, non hanno abbandonato i loro terreni e provano a resistere alle minacce. Ma quando i campi coltivati vengono accerchiati dalle piantagioni diventano presto improduttivi, favorendo la riproduzione di alcune specie nocive. ‘Da quando hanno piantato la palma da olio i nostri campi sono stati infestati da ratti che distruggono i raccolti’, dice Sweede Taiban anziano della comunità’ Palawan di Iraray II. ‘Insetti che non avevamo mai visto prima stanno devastando le nostre palme da cocco. La produzione di copra (cocco essiccato per l’estrazione dell’olio) è diminuita del 50% e migliaia di palme da cocco sono morte. Non sappiamo più come cibare i nostri figli’, aggiunge Taiban. Le Corporation, dal canto loro, negano che ci sia un rapporto causale tra infestazioni da Brontispa longissima, punteruolo rosso (Rhynchophorus ferrugineus) e palme da olio.
Non se la passano meglio i contadini e i proprietari di piccoli appezzamenti, raggruppati in cooperative agricole, a cui le compagnie della palma hanno fatto firmare accordi fasulli. Contratti in lingua inglese, che gli agricoltori locali non comprendono, di significato completamente diverso rispetto a quanto loro promesso. ‘Agumil ci ha detto che la Banca Agricola delle Filippine (Land Bank) avrebbe finanziato la conversione dei nostri terreni in palme da olio all’80% e che a noi sarebbe toccato pagare il restante 20%. Non avendo fondi da investire, Agumil ha deciso di coprire lei il nostro 20%, senza dirci che si trattava anche qui di un prestito al tasso d’interesse del 14% cumulativo’, racconta Manong Benjamin del villaggio di Calasaguen (Municipalità di Brooke’s Point). Il quale aggiunge ‘ci avevano detto che dopo la prima raccolta di datteri di palma avremmo avuto soldi a sufficienza per acquistare una motocicletta e nel giro di un anno, un ‘Pajero’. Oggi siamo indebitati fino al collo sia con Agumil che con Land Bank e non abbiamo neppure la legna per cucinare’.
La disperazione e la povertà hanno portato alcuni contadini, come Nestor Madumay nella Municipalità di Aborlan, a ricorrere all’estremo rimedio di abbattere e sradicare le palme da olio dai propri terreni, affrontando tutte le possibili ritorsioni da parte di Agumil. ‘Abbiamo provato ad ucciderle facendo un buco nel fusto per bruciarne il midollo, ma le palme non sono seccate. Anche tagliarle non è facile perché il fusto interno è oleoso, e quindi pastoso, e blocca la lama delle motoseghe. Usare l’ascia richiede forza e molto tempo. Alla fine abbiamo desistito’, racconta Madumay. Un’altra cosa che preoccupa molti contadini è la futura riconversione delle piantagioni in terreni coltivabili, quando – dopo circa 25/30 anni – le palme avranno terminato il loro ciclo produttivo e le compagnie potrebbero abbandonare le piantagioni. A molte compagnie conviene infatti acquisire nuovi terreni per coltivare la palma, piuttosto che bonificare quelli già soggetti a coltivazione intensiva e ormai impoveriti, dopo quasi tre decenni di uso costante di agrotossici (pesticidi e fertilizzanti). Inoltre l’apparato radicale della palma da olio è molto invasivo e colonizza sia gli strati superficiali del terreno che quelli più profondi. Di certo la rimozione delle radici richiederà mezzi meccanici, di cui i piccoli contadini sono sprovvisti. È dunque plausibile ipotizzare che, a causa dell’impossibilità di bonificare i campi oggi soggetti alla coltura della palma da olio, molti contadini saranno in futuro costretti ad abbandonare le campagne.
In un contesto così difficile, credi che la battaglia per Palawan potrà essere vinta, prima o poi?
Parafrasando Edmundo Aray, poeta e narratore venezuelano, ‘le battaglie non si perdono, si vincono sempre’. Tuttavia non sono ottimista, anzi spesso avverto un profondo senso di tristezza e mi sento quasi come un ‘reduce di guerra’, quando ritorno nei luoghi dove ho vissuto e non trovo più alcuna traccia degli ambienti e di quella gente, delle grida dei bimbi che si tuffavano nelle acque cristalline dei fiumi, dei canti sciamanici, della vita di villaggio. Tutto fagocitato nel nulla, soltanto per raggiungere una mezza tacca in più sulla scala del PIL!
Non c’è dubbio, nelle Filippine stiamo assistendo a una progressiva deriva democratica che mal si coniuga con la salvaguardia ambientale e la tutela dei diritti di indigeni e contadini. Le sfide da affrontare sono molteplici e la battaglia finale dovrà essere giocata simultaneamente su vari fronti, globale, nazionale e locale. Sarà necessario creare una sinergia d’intenti e una coordinazione costante tra chi lavora sul campo e chi ha contatti diretti con i decisori politici e le istituzioni internazionali. Ecco perché a gennaio 2018, grazie all’appoggio di uno dei maggiori sindacati francesi (Confédération française démocratique du travail, CFDT), ci siamo recati a Parigi con alcuni membri di CALG, per esporre il problema sia ai consumatori, sia alle industrie che acquistano il fatidico grasso tropicale. Oltreché a membri del governo e organizzazioni internazionali. (2)
L’unica speranza di salvezza – per Palawan e altri patrimoni verdi dell’umanità, che vengono divorati al ritmo di 1-2 milioni di ettari l’anno – è un taglio drastico alla domanda globale di ‘palm oil’. Si tenga bene a mente che l’olio di palma non è impiegato solo in alimenti e cosmetici, ma anche per la produzione del cosiddetto ‘biodiesel’ e costituisce oggi il 17% di tutti gli agro-combustibili immessi sul mercato globale, con 1/3 della produzione totale destinata all’Europa. Va inoltre ricordato che l’italiana ENI, in parte statale, produce biodiesel da olio di palma a Marghera (VE) e ha investito 200 milioni di euro per convertire questa raffineria di petrolio in green refinery. La conversione di un’altra raffineria petrolifera in green refinery, a Gela, è ora in fase di completamento. Le materie prime deriveranno da scarti della produzione alimentare, come oli usati (UCO, used cooking oil), grassi animali (tallow) ma anche sottoprodotti legati alla lavorazione dell’olio di palma (PFAD). Gli ambientalisti più seri spiegano però che il PFAD, pur essendo un sottoprodotto, ha un valore di mercato significativo. Non dovrebbe quindi venire usato come pretesto, da ENI e altri petrolieri ‘rinverditi’, per giustificare ipotetici impegni a ridurre i consumi di olio di palma. Il Parlamento italiano aveva introdotto una proposta di legge per vietare l’utilizzo di PFAD, nella trascorsa legislatura, (3) che come era facile prevedere non ha avuto seguito. L’Europa a sua volta non è ancora in grado di approdare a scelte politiche responsabili e condivise sulla questione ‘olio di palma’, (4) ed è ben lontana da un cambiamento radicale delle sue politiche energetiche.
Dario Novellino, intervista a cura di Dario Dongo
Note
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Le nostre inchieste su rapina delle terre, deforestazioni e olio di palma hanno altresì abbracciato il continente africano e l’America Latina, con focus su Messico, Colombia, Perù. Oltreché, in Asia, la Nuova Guinea e Borneo. In Indonesia, attenzione è stata dedicata anche ai fenomeni della schiavitù e dello sfruttamento minorile, su https://www.greatitalianfoodtrade.it/idee/la-grande-bugia-dell-olio-di-palma-sostenibile-il-rapporto-di-amnesty-international-inchioda-big-food
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I filmati dell’incontro di Parigi sono disponibili sia in inglese https://www.youtube.com/watch?v=AtPoitSU8bw&feature=youtu.be, sia in francese https://www.cfdt.fr/portail/actualites/economie-/-developpement-durable/-video-l-huile-de-palme-peut-elle-etre-durable-srv1_582729
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Si vedano i precedenti articoli https://www.greatitalianfoodtrade.it/progresso/risoluzione-del-parlamento-europeo-su-olio-di-palma-stop-al-biodiesel-serve-una-certificazione-attendibile e https://www.greatitalianfoodtrade.it/consum-attori/olio-di-palma-insostenibile-dalle-favole-dei-palmocrati-ai-dati-su-emissioni-di-gas-serra-e-cambiamento-climatico
![DARIO DONGO](https://www.greatitalianfoodtrade.it/wp-content/uploads/2024/11/dario-dongo-1-150x150.jpg)
Dario Dongo, avvocato e giornalista, PhD in diritto alimentare internazionale, fondatore di WIISE (FARE - GIFT – Food Times) ed Égalité.