Origine ingredienti in etichetta. In quindici anni di dibattiti – da quando Coldiretti lanciò la sua proposta ‘origine materie prime sulle etichette di tutti i prodotti alimentari’ – le chiacchiere e le farse hanno ampiamente superato le riforme. (1) Col risultato che oggi esistono parziali garanzie solo sul bio, con effetti paradossali sull’informazione al consumAttore, a sua volta del tutto spaesato. Siamo pronti a presentare ricorso in Corte di Giustizia UE, contro il regolamento OPT (Origine Pianeta Terra), a sostegno di chi davvero vuole la trasparenza in etichetta.
Origine ingrediente primario, la farsa del regolamento UE 2018/775
La Commissione europea – nell’adottare il reg. UE 2018/775, recante modalità di indicazione in etichetta dell’origine ingrediente primario di prodotti che riportino una diversa origine (intesa come Paese di sua ultima trasformazione sostanziale) – ha in tutta evidenza commesso un eccesso di potere. Nell’introdurre una serie di deroghe, non previste nell’atto normativo di base, (2) che consentono agli operatori di continuare a nascondere l’origine dell’ingrediente primario.
Il regolamento UE 2018/775 consente infatti di mantenere segreto sulla provenienza della materia prima prevalente in un’ampia serie di casi, come quelli in cui l’origine del prodotto sia comunicata al consumatore:
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mediante un marchio registrato (es. lenticchie canadesi di ‘Colfiorito’. Piuttosto che ‘polenta Valsugana’, con quale mais?),
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con una ‘indicazione geografica generica’ (es. ‘pesto alla genovese’, ‘ragù alla bolognese’, da ingredienti di dove?),
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attraverso una Indicazione Geografica Protetta, IGP. Laddove è sufficiente che una parte del processo sia localizzata nel luogo designato, senza bisogno che la materia prima sia originaria di lì (e così ad esempio, rimangono occultate le provenienze delle carni dello Speck dell’Alto Adige e della Bresaola della Valtellina).
Sono altresì esclusi dal campo di applicazione del regolamento i vini aromatizzati, i liquori e le bevande spiritose, i prodotti oggetto di accordi internazionali (CETA, JEFTA, etc.).
OPT, ‘Origine Pianeta Terra’ è il nome che più si addice al reg. UE 2018/775. Poiché è tale il livello di precisione ammesso per designare l’origine dell’ingrediente primario, ‘UE-nonUE’. Le regole europee precedono dunque l’avvio di produzioni alimentari su Marte, già prescrivendo l’obbligo di precisare l’origine terrestre dei cibi di questo globo. Un vero successo anche per l’informazione dei venusiani (!).
Vini di qualità, origine garantita al 100% solo nel bio. Zuccheri alieni nascosti nelle bollicine convenzionali
La DOCG, denominazione di origine controllata e garantita, introdotta sin dal DPR n. 930/1963, è riservata ‘ai vini già riconosciuti a DOC e a zone espressamente delimitate o tipologie di una DOC da almeno dieci anni, che siano ritenuti di particolare pregio, per le caratteristiche qualitative intrinseche e per la rinomanza commerciale acquisita’. (3)
Il riconoscimento è concesso solo se la disciplina viticola ed enologica sono più restrittive rispetto a quelle della DOC di provenienza. Le uve provengono (è ‘garantito’) esclusivamente dalla zona geografica a cui è fatto richiamo nella denominazione. (4) Anzi, in genere, esse provengono da una sottozona storica nell’ambito della zona ove si produce il vino DOC.
I vigneti conformi al disciplinare di produzione devono venire iscritti all’Albo dei vigneti della rispettiva denominazione. Il disciplinare definisce il numero massimo di ceppi per ettaro e la resa massima di uva che ne può derivare, come pure le specifiche caratteristiche a cui il vino deve rispondere, ai fini dell’immissione al consumo. Colore, odore, sapore, titolo alcolometrico minimo, acidità totale e altri parametri. Il disciplinare stabilisce altresì le indicazioni in etichetta e il tipo di bottiglia.
I vini DOCG, infine, sono sottoposti prima dell’immissione al consumo ad analisi chimico-fisica presso laboratori autorizzati e all’esame organolettico da parte di una Commissione di degustazione composta da iscritti agli elenchi dei ‘tecnici degustatori’ e degli ‘esperti degustatori’ tenuti dalle Camere di Commercio e nominati dalla Regione competente.
Una complessa procedura è quindi stabilita per garantire che alla DOCG corrisponda effettivamente un prodotto di qualità elevata, ai vertici della piramide vinicola nazionale. A esito di un rigoroso controllo della conformità a un disciplinare scrupoloso e restrittivo, teso a identificare un prodotto che effettivamente rappresenti la migliore espressione produttiva di quel territorio.
La DOCG bio si distingue tuttavia per ulteriori requisiti d’informazione che, paradossalmente, risultano discriminatori rispetto al prodotto convenzionale. Si prenda ad esempio uno spumante biologico metodo classico. Un Franciacorta DOCG, un Oltrepo pavese DOCG.
A margine del logo europeo di conformità al metodo biologico (la fogliolina stilizzata contornata dalle 12 stelle dell’UE) possiamo infatti trovare l’indicazione ‘Agricoltura UE/non UE’. Ma come, non si tratta pur sempre di uve coltivate sui dolci declivi delle colline della Franciacorta o negli ameni rilievi collinari trevigiani? Certo che sì! E allora, cosa sottintende l’inquietante indicazione ‘Agricoltura UE/non UE’?
Non si tratta certo di un mélange di vini comunitari ed extra-comunitari. Non sono state vinificate uve spagnole né cilene, è evidente, poiché l’origine deve essere rigorosamente garantita. Ed è parimenti da escludere l’ipotesi di zuccheraggio, che in Italia è vietatissimo.
Il mistero si disvela con la spumantizzazione. Una fase di processo che comporta la legittima aggiunta di una quantità di zucchero, il c.d. liqueur de tirage. Dai due ai tre grammi di zucchero ogni 100 ml, a seconda della pressione che s’intende raggiungere, con eventuale aggiunta di lieviti. Fin dai tempi di Dom Perignon è questa seconda trasformazione a dar luogo alla c.d. ‘presa di spuma’.
A tutt’oggi lo zucchero impiegato nella spumantizzazione, nella quasi totalità dei casi, non deriva da uva. Lo spumante si potrebbe in effetti realizzare a partire dalle sole uve, utilizzando il mosto cristallino rettificato solido (MCRS). Ma invece, si utilizzano in prevalenza ‘zuccheri alieni’, di barbabietola o di canna. Nelle ‘bollicine’ convenzionali, come in quelle ‘bio’.
E tuttavia, la presenza di ‘zuccheri alieni’ si può intuire soltanto dalla lettura attenta delle etichette delle ‘bollicine bio’. Poiché la produzione di zucchero biologico di barbabietola, in Europa, è ancora in una fase sperimentale. E l’unico zucchero europeo di canna ‘bio’ è quello che proviene dai Territori francesi d’Oltremare (es. Martinica). Così, al di fuori delle rare ipotesi poc’anzi accennate, lo spumante biologico riporta le indicazioni ‘agricoltura UE-nonUE’ poiché la sua spumantizzazione è avvenuta con impiego di zucchero bio (di barbabietola o di canna) quasi inevitabilmente extra-UE.
Le bollicine non bio, viceversa, possono venire spumantizzate con zucchero di canna o barbabietola di qualsivoglia origine senza che il consumatore ne sappia niente. Possono contenere zucchero polacco, russo o peruviano e tuttavia mostrarsi come più autentiche, più intimamente legate al terroir rispetto ai corrispondenti prodotti biologici. Una discriminazione – e anzi, una presa per i fondelli avallata dai regolamenti europei – di non poco conto (!).
Un’opportunità per le tutte le cantine italiane più lungimiranti, bio e non bio, è in ogni caso quella di distinguere i loro spumanti – rispetto alla concorrenza di altri Paesi – con claim ‘rivoluzionari’ del tipo ‘100% da uva’, o ‘senza zuccheri diversi da quelli dell’uva’. Decidendo di utilizzare solo mosto cristallizzato concentrato solido, che tra l’altro è prodotto solo in Italia, anziché zuccheri alieni di svariate origini (botaniche e territoriali).
IGP, garanzia di provenienza solo sui prodotti biologici
La discriminazione tra ‘bio’ e ‘non-bio’ – per quanto attiene all’indicazione dell’origine degli ingredienti – non è limitata ai vini. Il regolamento europeo sulla produzione biologica (reg. CE n.834/07), a ben vedere, pecca infatti di una genericità e incoerenza che si estende a diversi settori produttivi.
Le regole UE sulle produzioni biologiche sono generiche nel limitarsi a prescrivere che l’origine degli ingredienti possa venire comunicata nei termini di ‘Agricoltura UE – nonUE’. Senza pretendere maggiori dettagli che ben varrebbero a circoscrivere l’estensione delle filiere, né focalizzare l’attenzione su ingredienti primari o comunque significativi (in quanto caratteristici).
Le etichette dei prodotti biologici devono così riportare ‘Agricoltura UE’ se la materia prima agricola è interamente coltivata in Unione Europea, ‘Agricoltura UE – nonUE’ se in parte da Paesi terzi, altrimenti ‘non UE’. E soltanto quando tutte le materie agricole siano state coltivate in un unico Paese se ne può indicare il nome.
Le IGP (Indicazioni Geografiche Protette) ‘bio’ devono quindi riportare notizia dell’origine sia dell’ingrediente primario, sia di eventuali altri. Per citare un esempio, la bresaola della Valtellina IGP biologica realizzata con manzo svizzero deve venire contrassegnata con la dicitura ‘Agricoltura non UE’. Anche se 22 Comuni della provincia di Sondrio confinano con la Svizzera e si tratta perciò di filiere a km 0.
Le IGP convenzionali, viceversa, sono esentate dall’obbligo di indicare l’origine dell’ingrediente primario. E così, il produttore di bresaola della Valtellina IGP ‘non bio’ può decidere di utilizzare carne di zebù brasiliano, (5) tacendone accuratamente l’origine. Grazie al regolamento-farsa sull’origine dell’ingrediente primario, reg. UE 2018/775.
Regolamento UE 2018/775, eccesso di potere
Il regolamento OPT (Origine Pianeta Terra) travisa lo spirito del legislatore europeo, oltre ai limiti della delega da esso conferita alla Commissione europea. (6) Basti ricordare gli obiettivi generali del regolamento UE 1169/2011, ‘La fornitura di informazioni sugli alimenti tende a un livello elevato di protezione della salute e degli interessi dei consumatori, fornendo ai consumatori finali le basi per effettuare delle scelte consapevoli e per utilizzare gli alimenti in modo sicuro, nel rispetto in particolare di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche).
Il reg. UE 2018/775 introduce una serie di deroghe – accennate nel primo paragrafo di questo articolo – che il regolamento di cui esso dovrebbe costituire attuazione non prevede da nessuna parte. La Commissione europea – con il consenso di quasi tutti i Paesi membri, ivi compresa l’Italia allora rappresentata da Paolo Gentiloni Silveri quale facente funzioni di ministro dell’agricoltura – è giunta a negare che una IGP rappresenti un’indicazione geografica. Dalla quale deve scaturire l’obbligo di precisare l’origine dell’ingrediente primario, qualora diversa.
Escludere le IGP dall’obbligo di indicare la provenienza dell’ingrediente essenziale significa continuare a nascondere al consumatore che la gran parte delle bresaole in Valtellina sono realizzate con cosce di zebù brasiliani, altri salumi italiani IGP da maiali allevati in Olanda, Danimarca, Brasile, Romania o Polonia.
‘L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari a denominazione di origine e a indicazione geografica riconosciuti dall’Unione europea. Un’ulteriore dimostrazione della grande qualità delle nostre produzioni, ma soprattutto del forte legame che lega le eccellenze agroalimentari italiane al proprio territorio di origine.
Il sistema delle Indicazioni Geografiche dell’Ue, infatti, favorisce il sistema produttivo e l’economia del territorio; tutela l’ambiente, perché il legame indissolubile con il territorio di origine esige la salvaguardia degli ecosistemi e della biodiversità; sostiene la coesione sociale dell’intera comunità.
Allo stesso tempo, grazie alla certificazione comunitaria si danno maggiori garanzie ai consumatori con un livello di tracciabilità e di sicurezza alimentare più elevato rispetto ad altri prodotti.’ (7)
Coldiretti però non ha preteso alcuna trasparenza in Europa sull’origine dell’ingrediente primario, né ha preteso alcun intervento dai suoi burattini Maurizio Martina e Paolo Gentiloni (nel ruolo di ministro ad interim delle politiche agricole). L’organizzazione agricola è parsa distratta dalla polemica contro i semafori in etichetta, che tanto disturbano il gruppo Ferrero, ma non ha ancora fatto nulla di concreto:
– né contro il JEFTA, l’Accordo EU-Giappone che darà il via libera al Parmesan e tante altre contraffazioni delle nostre DOP. Coldiretti del resto aveva già ignorato il CETA, altrettanto pericoloso per le nostre DOP e IGP,
– né contro il regolamento OPT (Origine Pianeta Terra).
La trasparenza è il nostro obiettivo, il diritto la nostra arma. Se le bandiere gialle o altre organizzazioni – private, collettive o anche pubbliche – intenderanno davvero portare avanti queste battaglie, ci contattino per muoversi al più presto. Il termine per impugnare il regolamento OPT alla Corte di Giustizia UE scade a inizio agosto 2018.
Dario Dongo
Note
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Il quadro completo degli obblighi di citare in etichetta l’origine è descritto nel precedente articolo. L’unica concreta novità, nei tre ultimi lustri, è costituita dall’obbligo di indicare i Paesi di allevamento e macellazione delle sole carni – e non anche dei prodotti derivati – delle specie ovina, caprina, suina e di pollame
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Cfr. reg. UE 1169/11, articolo 26, comma 3
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V. decreto legislativo 61/2010
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Così il reg. UE 1308/2013, articolo 93
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Il disciplinare della bresaola della Valtellina IGP si limita infatti a definire l’età del bovino (tra i 18 mesi e i quattro anni), senza prescrivere alcunché sulla sua provenienza
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Cfr. reg. UE 1169/11, articolo 26.3
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Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, MiPAAF, su https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/396
Dario Dongo, avvocato e giornalista, PhD in diritto alimentare internazionale, fondatore di WIISE (FARE - GIFT – Food Times) ed Égalité.