HomeConsum-attoriCacao, deforestazioni e lavoro minorile. Big Food chiede un regolamento UE

Cacao, deforestazioni e lavoro minorile. Big Food chiede un regolamento UE

Deforestazioni uguale a soia OGM e olio di palma, sfruttamento minorile uguale a olio di palma e nocciole. Ai due assiomi più noti, sull’insostenibilità di alcune filiere alimentari, se ne aggiunge un terzo che tuttora molti tendono a ignorare. Cacao uguale a lavoro minorile – come già ampiamente dimostrato – e anche deforestazioni.

Big Food, sotto la pressione delle ONG, chiede perciò di introdurre un apposito regolamento UE, a garanzia della sostenibilità della filiera. I colossi che da secoli trasformano e utilizzano la bacca, troppo amara per venire ancora ignorata, riconoscono di fatto l’inefficacia delle certificazioni da alcuni adottate. (1) E senza entrare nel dettaglio delle proprie responsabilità – mascherate attraverso oscure intermediazioni con i fornitori locali – chiedono di fare ordine mediante regole che sfuggano a greenwashing e competitività. È ora di voltare pagina, ecco come e perché.

Cacao e deforestazioni

Chocolate’s Dark Secret: How the Cocoa Industry Destroys National Parks – il rapporto pubblicato dalla ONG Mighty Earth a settembre 2017 – ha messo in luce l’entità delle deforestazioni legata alla produzione di cacao in Africa occidentale. Documentando la distruzione illegale delle foreste primarie nei parchi nazionali della Costa d’Avorio che ospitavano elefanti, coccodrilli, ippopotami e scimpanzé.

La Costa d’Avorio è il primo fornitore di cacao a livello globale (42% circa), seguita da Ghana (19%), Indonesia, Ecuador e Camerun. In Africa occidentale, il cacao viene coltivato principalmente in piccole aziende agricole a conduzione familiare. Circa 2 milioni di piccoli proprietari affidano alle vendite il proprio sostentamento, con risultati che in molti casi sono troppo magri per via della scarsa remunerazione e modesta produttività delle colture.

La gran parte dei micro-agricoltori non viene incoraggiata né è in grado di investire in sistemi di produzione esenti da deforestazione. Per carenza di risorse e conoscenza di pratiche agricole sostenibili, che consentano loro di mantenere gli alberi da ombra offerti dalla natura, accedere a varietà ad alto rendimento, rinnovare le piante senescenti e improduttive. Tendono così piuttosto a deforestare per seminare in terreni più fertili, anziché rinnovare o riabilitare le piantagioni in essere.

Certificazioni e greenwashing

Alcuni agricoltori hanno ricevuto supporto da organismi privati, come UTZ e Rainforest Alliance, che certificano simulacri di sostenibilità. La certificazione di Rainforest Alliance, ad esempio, postula che vengano mantenuti un minimo di cinque alberi originari per ettaro (e una copertura ‘verde’ del 30%). Senza garantire alcun fermo alle deforestazioni, né riconoscere ai coltivatori il premio necessario a emanciparsi dalla povertà spesso estrema. (2)

La logica finora adottata negli schemi provati di certificazione è quindi funzionale al solo business di Big Food. Al preciso scopo di ‘tinteggiare di verde’ – greenwashing, appunto – lo sfruttamento di stampo neo-coloniale di ecosistemi e lavoratori. Sfruttamento di cui proprio l’ideatore di Rainforest Alliance, il gruppo Unilever, ha secolare esperienza.

Il greenwashing raggiunge poi il culmine nelle certificazioni autoreferenziali costruite a tavolino (letteralmente, roundtable) dai palmocrati e dai colossi della soia OGM. RSPO (Roundtable for Sustainable Food Production) e RTRS (Roundtable on Responsible Soy). Carte prive di alcun significato, a fronte della sistematica violazione dei diritti umani fondamentali e dell’ambiente proprio da parte delle imprese certificate. (3)

Certificazioni di ‘sostenibilità’, elementi critici

Gli schemi privati soggetti a certificazioni che riferiscono a ipotetica ‘sostenibilità’ – allorché riferiti a filiere la cui produzione si radica in Paesi a Basso-Medio Reddito (Low-Middle Income Countries, LMIC) – presentano gravi criticità laddove non siano contemplate misure efficaci al sostegno dei lavoratori e delle comunità locali. Le certificazioni che non contemplino l’equità della filiera (es. Fair Trade) presentano perciò una serie di elementi critici:

1) in primo luogo, le filiere certificate rappresentano oggi a malapena un decimo delle produzione globali di olio di palma, tè e del cacao. Sono perciò scarse, spesso anche irregolari,

2) molti schemi di certificazione sono inaccessibili ai piccoli agricoltori, a causa dei costi associati alla certificazione iniziale (adeguamento delle prassi agricole e documentazione delle procedure) e agli audit. In difetto di copertura finanziaria e incentivi apprezzabili per il cambio di paradigma rispetto agli usi tradizionali,

3) da parte dei grandi gruppi si assiste al fenomeno del forum shopping. Vale a dire, la ricerca degli schemi di certificazione con parametri meno restrittivi. Greenwashing a sostegno solo formale della CSR (Corporate Social Responsibility), invece di CSV (Contributing to Social Values),

4) scarseggiano (un eufemismo) i controlli su nuove attività di deforestazione mirate ad espandere le aree di produzione ‘certificata’. Innescando così gli ecocidi che le certificazioni stesse, in teoria, dovrebbero mitigare,

5) i sistemi di certificazione possono effettivamente portare a cambiamenti duraturi nell’utilizzo del suolo, ma gli impatti sostanziali di questi cambiamenti potrebbero non essere immediatamente osservabili. In primo luogo, la certificazione delle colture di materie prime è apparsa dopo la certificazione per foreste e pesca.

Tracciabilità, questa sconosciuta

La vera tracciabilità delle singole forniture di materie prime – quand’anche la loro produzione sia estrema frammentata in minuscoli appezzamenti – è la conditio sine qua non per combattere la deforestazione e lo sfruttamento dei bambini nelle piantagioni. Una grande sfida finora riuscita ai pochissimi operatori responsabili che hanno deciso di impegnarsi sul fronte del fair trade anziché limitarsi ‘tinteggiare di verde’ il loro business più POP (Profit Over People).

Sostenibilità della filiera del cacao, la richiesta di un regolamento UE

12 tra i protagonisti globali della produzione di cacao e cioccolato – in risposta alle crescenti preoccupazioni della comunità internazionale sulla sostenibilità della filiera di approvvigionamento del cacao – avevano concordato, a marzo 2017, un impegno collettivo. Lavorare assieme, in collaborazione con i governi dei Paesi produttori e altre parti interessate, per porre fine alla deforestazione e al degrado ambientale legati alla produzione di cacao. Tale impegno è stato rinnovato a Bonn, presso l’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), a novembre 2017.

Tre soli colossi – Barry Callebaut, Mars Wrigley e Mondelēz International (4) – si sono uniti a Fairtrade InternationalRainforest Alliance e VOICE Network. (5) Per evidenziare, in un documento pubblicato il 2.12.19, l’incapacità delle iniziative di carattere volontario a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità nella supply-chain del cacao. (6) E chiedere l’adozione di strumenti giuridici vincolanti da parte dell’Unione Europea, in quanto primo importatore al mondo di cacao.

L’UE ha una maggiore capacità rispetto a qualsiasi altro mercato di consumo di guidare il cambiamento nel settore del cacao. Ha quindi opportunità e responsabilità e dimostrare la propria leadership, anche attraverso un’azione legislativa, per affrontare questi problemi. Il nostro obiettivo finale è una catena di approvvigionamento di cacao pienamente sostenibile che offra reddito adeguato ai coltivatori di cacao e riduca fino a eliminare le violazioni dei diritti umani, incluso il lavoro minorile e il degrado ambientale. (5)

Cacao sostenibile, quali regole?

La coalizione dei firmatari del documento chiede un regolamento europeo, da accompagnare ad accordi multilaterali tra i Paesi produttori e l’UE. (7) L’approccio che si propone di adottare è quello della due diligence, ispirata ai Principi Guida ONU su ‘Business and Human Rights’. I ‘Ruggie Principles’, dal nome del professor John Ruggie dell’Università di Harvard che li elaborò, vennero adottati all’unanimità dallo UN Human Rights Council nel 2011. (8)

Guiding Principles dell’ONU muovono dalla considerazione di una responsabilità condivisa tra le multinazionali e gli Stati ove esse operano, per quanto attiene all’impatto delle loro attività sui diritti umani. Tengono conto dei principi di diritto internazionale, ma anche di esperienze normative nazionali e standard volontari esistenti. (9) E fondano la propria operatività sui tre pilastri ‘Protect, Respect and Remedy’.

Sostenibilità socio-ambientale, dalle parole ai fatti

In pratica, tutti gli operatori della filiera from bean to chocolate cream dovrebbero eseguire una valutazione preliminare dell’impatto delle proprie operazioni sui diritti umani e sull’ambiente. Adottare politiche ‘responsabili’ volte a interrompere, prevenire e mitigare gli impatti negativi, pubblicare rapporti annuali sulle attività eseguite e i relativi risultati, fornire o collaborare a meccanismi di ‘riparazione’ ove appropriato.

Dalle parole ai fatti, i Guiding Principles sono tuttora privi di una cogenza effettiva, per gli Stati come per gli operatori. I quali tutti sono di fatto semplicemente ‘invitati’, anziché chiamati a responsabilità. All’atto pratico – come mostra l’applicazione, del regolamento UE che dovrebbe garantire la sostenibilità ambientale degli approvvigionamenti di legname (7) – le sole prescrizioni obbligatorie attengono alla forma, cioè alle procedure adottate. Anziché alla sostanza, vale a dire al rispetto dei diritti fondamentali.

La pressione dal basso può dunque ancora una volta rappresentare la soluzione a un sistema di business neo-coloniale. L’87% dei consumatori europei – secondo il sondaggio realizzato a maggio 2019 da Greenpeace, WWF, YouGov, Agenzia per le indagini ambientali e FERN – non vogliono rendersi complici delle deforestazioni in atto. (10)

I cittadini e consumAttori europei dovrebbero perciò a loro volta imparare a compiere scelte d’acquisto responsabili, lasciando a scaffale i prodotti a base di cacao che non offrano idonee garanzie di sostenibilità socio-ambientale. E insistere affinché la politica From Farm to Fork (f2f) annunciata dalla Commissaria Ursula von der Leyen si esprima anche nell’affermazione di responsabilità, doveri e divieti, sanzioni dissuasive.

The Dark Side of Chocolate, (11) ora basta!

#Égalité!

Dario Dongo e Giulia Caddeo

Note

(1) Hamish van der Vena et al. (2018). Do eco-labels prevent deforestation? Lessons from non-state market driven governance in the soy, palm oil, and cocoa sectors. Global Environmental Change 52 141-151, Elsevier, p. 143

(2) Sophia Carodenuto (2019). Governance of zero deforestation cocoa in West Africa: New forms of public–private interaction. Wiley, Env Pol Gov. 2019;29:55–66. Doi: 10.1002/eet.1841, pp. 56-59

(3) Su RSPO si veda anche https://www.greatitalianfoodtrade.it/idee/olio-di-palma-rapina-delle-terre-e-deforestazioni-un-milione-di-ettari-sfugge-ai-registri-di-rspo-denuncia-la-zoological-society-of-london

(4) Mondelēz International è una delle Corporation maggiormente coinvolte a valle degli incendi in Indonesia, secondo il recente rapporto di Greenpeace. V. https://www.greatitalianfoodtrade.it/consum-attori/indonesia-incendi-e-olio-di-palma-certificato-rspo-rapporto-greenpeace

(5) Voice Network è un catalizzatore di ONG e rappresentanze di filiera che aspirano alla riforma del cocoa sector. I suoi membri sono ABVV/FGTB-Horval, Be Slavery Free, EFFAT, FERN, FNV, Green America, Inkota Netzwerk, International Labor Rights Forum, Mighty Earth, Oxfam Novib, Oxfam Wereldwinkels, Public Eye, Solidaridad, Südwind Institut

V. Joint  position paper on the EU’s policy and regulatory approach to cocoa, 2.12.19, su https://www.voicenetwork.eu/wp-content/uploads/2019/12/Joint-position-paper-on-the-EUs-policy-and-regulatory-approach-to-cocoa.pdf

(6) Molte iniziative sono riconducibili al programma REDD+, ‘Riduzione delle emissioni da deforestazione e degradazione forestale, gestione sostenibile delle foreste, conservazione e valorizzazione degli stock di carbonio delle foreste nei Paesi in via di sviluppo’. REDD+, introdotto nel 2005 alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). V. https://www.greatitalianfoodtrade.it/progresso/deforestazioni-l-ue-rispetti-gli-impegni

(7) L’approccio della due diligence settoriale è stato adottato per i c.d. conflict minerals (reg. UE 2017/821) e il legno (reg. UE 995/10). Con scarsi risultati purtroppo. V. https://www.greatitalianfoodtrade.it/consum-attori/deforestazione-made-in-italy-buycott

(8) UN guiding principles on business and human rightshttps://www.ohchr.org/Documents/Publications/GuidingPrinciplesBusinessHR_EN.pdf

(9) Si citano al riguardo le Linee Guida ISO 20400:2017 sul c.d. Sustainable Procurement, (approvvigionamenti sostenibili), le quali richiamano espressamente ai Sustainable Development Goals (SDGs) in Agenda ONU 2030. Con specifico riguardo ai temi Human Rights, Labour Practices e Environment. V. https://www.greatitalianfoodtrade.it/progresso/iso-20400-linee-guida-per-l-approvvigionamento-da-filiere-sostenibili

(10) V. https://d25d2506sfb94s.cloudfront.net/cumulus_uploads/document/v3p20mpf8i/YG-Archive-030519-FernDeforestationAllMarkets065.pdf

(11) V. Miki Mastrati e U. Roberto Romero (2010). Film documentario The Dark Side of Chocolate, su http://www.slavefreechocolate.org/dark-side-of-chocolate

Laureata in giurisprudenza, master in Food, Law & Finance. Ha approfondito il tema degli appalti verdi e delle urban food policies presso il settore Cooperazione internazionale e Pace della Città di Torino.

Articoli correlati

Articoli recenti

Commenti recenti